L’acqua del pozzo
e L’Eco del futuro

di Giorgio Gandola
«Certi film sono pezzi di vita, i miei sono pezzi di torta». Alfred Hitchcock voleva invitare chi lo stava premiando a non metterla giù troppo dura. Non c’è nessun brivido in questa decisione: lascio L’Eco perché un tempo è finito, largo ai più giovani.

Ma ciò basta a restituire il tono, non certo il senso di un’esperienza in un territorio che è una piccola patria, fra persone che si sentono popolo. Sono stati cinque anni splendidi in una terra che ti entra dentro e ti rende più solido, più generoso, anche più polemico (in senso buono). Perché tutto ciò che fai e dici viene messo in discussione.

Per convincere i bergamaschi non basta certo il pensierino della sera e forse neppure l’Urlo, rubrica mai veramente gridata che mi ha permesso di stabilire un dialogo stupendo con lettori speciali. In Italia ci sono 50 milioni di commissari tecnici della Nazionale. A Bergamo cinquecentomila - fra lettori, visitatori del sito, dei social e telespettatori - direttori de L’Eco. E ciascuno ha il suo giornale ideale. Così il direttore vero ha due possibilità. O trascorre le giornate a mediare in modo estenuante anche le brevi, pronto a rinchiudersi a chiave in ufficio. Oppure mette in pratica ciò che ha nella sacca, frutto di 30 anni di esperienza in giro per il mondo.

Questo ho provato a fare, con una stella polare: la notizia prima di tutto. Perché senza notizie esistono anonimi bollettini o raffinate riviste da 25 copie, non giornali. E le notizie, se vere e verificate, ad ogni latitudine non si discutono. Si pubblicano. Oggi il lettore ti sceglie ogni giorno, anzi con il web ogni ora. E si fida di te più di chiunque altro. Ma se lo deludi ti abbandona per sempre, trascinato dal fiume incontenibile delle news al tempo di Facebook. Detto questo, il buon giornalismo di qualità si sta impadronendo di diversi mezzi. Ma non si può semplificare, non è tutto 140 caratteri o emoticon. Avvolti dal rumore di fondo che impedisce di cogliere il senso delle cose, informarsi senza fare un po’ di fatica è impossibile.

Sono stati cinque anni tosti, con una città, una terra impegnate a contenere e poi a sconfiggere la più devastante crisi dal ’29. Gli ultimi dati ci dicono che i bergamaschi ce la stanno facendo ancora una volta. La straordinaria cultura del lavoro è un dono speciale. Un giorno Paolo Rocca mi spiegò che manda i suoi giovani ingegneri bergamaschi in tutti gli stabilimenti Tenaris del mondo per «trasferire quella passione per il lavoro che assorbono fin da bambini nei discorsi dei padri e dei nonni al pranzo della domenica». In questi anni duri il giornale non s’è limitato a proporre elenchi di aziende in chiusura, ma ha raccontato anche le storie di chi ha vinto, perché mai la speranza dev’essere soffocata dalla passività.

Ne abbiamo aperti e chiusi di cantieri: «Bergamo senza confini» per andare a trovare i bergamaschi che si fanno onore nel mondo, e poi L’Ecolab per chiedere alla politica di ascoltare le priorità dei cittadini, e poi L’Ecocafé per portare il giornale nei paesi, nella Bergamasca profonda, nel cuore di tenebra de L’Eco. E poi il sito web 3.0, e poi una Tv sempre più moderna, e poi il nuovo sistema editoriale come quello di Le Monde e del Washington Post. Un impegno costante, portato avanti col sorriso, nel segno della leggerezza di Calvino, «che non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore». Tutti insieme abbiamo lavorato tanto ed è inutile farla lunga, anche perché mi capitò di vedere uscire di scena Indro Montanelli, quindi meglio tagliare sugli aggettivi. Arrivai e c’era il totem della posta pneumatica, saluto la compagnia dopo cinque anni con Facebook live. Cinque anni nel gorgo della vita, in mezzo ai problemi della gente, mai semplicemente affacciati a una finestra a giudicare.

Ringrazio questa redazione di valore, convinta e pronta a raccogliere con passione e professionalità sfide sempre più decisive per l’editoria. Ringrazio il vescovo Francesco, un editore speciale, primo garante della libertà del giornale e dei suoi valori morali. Quando mi consegnò le chiavi della redazione mi disse: «Non ho consigli da darti, il professionista sei tu. Ti chiedo solo di dare spazio agli ultimi, perché se non lo facciamo noi non lo farà nessuno». Lascio il testimone in mani solide ed esperte, quelle di Alberto Ceresoli, giornalista di spessore, cuore Eco e bergamasco doc. Il resto d’una storia che finisce può essere sintetizzato da un vecchio proverbio cinese al quale tutti noi, io per primo, dobbiamo qualcosa: chi prende l’acqua da un pozzo non dovrebbe mai dimenticare chi l’ha scavato

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