L’America di Trump
tra Internet e ambiente

L’introduzione di internet ha portato a grandi riduzioni di anidride carbonica. Si pensi all’eliminazione della carta negli scambi epistolari e di affari o alle forti riduzioni dei recapiti postali via terra o aerea. La patria di questa rivoluzione tecnologica sono gli Stati Uniti. È qui che è nata la consapevolezza del rapporto intrinseco fra sviluppo scientifico e tecnico e rispetto dell’ambiente. Non a caso Apple, Microsoft, Google fanno base negli Usa e non è nemmeno un caso che Tesla lanci il progetto di un’auto senza pilota con motori ad emissione zero. La mobilità futura come prospettiva a breve con prodotti accessibili alle tasche del cittadino medio (Model 3 a 35 mila euro circa) costringe la concorrenza tedesca a dirottare ingenti investimenti nella ricerca dell’auto elettrica e quindi a lasciare il diesel al suo destino.

Elon Musk è l’imprenditore che ha fatto lo scherzetto ai petrolieri e li priva in futuro delle entrate certe dell’auto a benzina. Più si avanza sul piano della ricerca e maggiori sono le possibilità di ridurre l’impatto umano sul mondo circostante. Ecco, il Paese di Bill Gates, Steve Jobs, Mark Zuckerberg (Facebook) e di tanti altri ingegni della Silicon Valley ha eletto come suo presidente Donald Trump. Al primo impegno internazionale serio, l’incontro al G7 dei ministri dell’Energia a Roma, salta la dichiarazione congiunta sul clima per opposizione della nuova amministrazione americana. Una svolta a U perché sotto la presidenza Obama l’ambiente era in cima alle preoccupazioni degli Stati Uniti. La vecchia amministrazione faceva della rivoluzione tecnologica l’arma per affermare nel mondo il primato della via americana al benessere, quello che oggi chiamiamo qualità della vita e rispetto dei diritti umani. Una via complicata perché fondata sulle macerie di un modello industriale nato in Usa e ancora radicato nelle menti di molti.

Questa fetta d’America ha voluto prendersi la sua rivincita con Donald Trump. È anti storica? Può essere, ma di certo è l’espressione di un malessere sottovalutato. Quello di chi si sente di colpo inutile, legato ad un’industria quale quella dell’estrazione dei minerali e della lavorazione della materia prima, della manifattura che non c’è più. Proprio l’abbattimento dei confini ad opera di internet e l’apertura dei mercati hanno tolto il posto di lavoro a chi prima l’aveva. Non è un caso che i voti Trump li abbia raccolti nella provincia lontana dai centri direzionali. Ora queste masse di disillusi solidarizzano con i petrolieri, i proprietari di miniere di carbone, i costruttori di auto tradizionali che vedono come la peste le restrizioni sulle emissioni.

Volkswagen insegna ma non è sola in America. Ecco perché l’amministrazione Trump fa retromarcia nella politica ambientale.L’aveva promesso e mantiene la parola con i suoi elettori.

Ma c’è un altro elemento che rende la nuova linea strategica certamente non politicamente corretta ma più realistica. La sconfessione delle anime belle dei salotti radical chic che enfatizzano l’intervento dell’uomo sull’ambiente e non valutano le mutazioni stagionali nel tempo, quelle che alternano gli alti e bassi delle temperature e si collegano ai mutamenti fisiologici del clima nell’evoluzione del pianeta. E se anche così non fosse, di certo il realismo politico dice che il ritardo americano posto in essere da Trump non sarà comunque catastrofico. Lo dice Carlo Carraro, vicepresidente di Ipcc ( Intergovernmental Panel on Climate Change ) dell’Onu. Per recuperare occorrerà un maggior investimento in energie alternative. Gli Stati Uniti sono i detentori del patrimonio di ricerca più grande. Da qui il vantaggio per le attività industriali americane. I posti di lavoro cacciati dalla porta ritorneranno dalla finestra della crescita tecnologica.

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