L’autunno di Renzi
Battaglia campale

La magìa autunnale restituisce il governo alle prese con un intreccio senza precedenti e che non è il migliore dei mondi possibili: la coincidenza di tempi fra la legge di Bilancio, che arriva in Parlamento a metà ottobre, e la campagna elettorale per il referendum costituzionale che in quel periodo raggiungerà il pieno. Neppure il più perfido degli apprendisti stregoni avrebbe potuto prefigurare una simile trappola. La prima questione riguarda il rilancio del Sistema Italia, la seconda la tenuta della governabilità: tutto, comunque, si tiene, per giunta nello stesso spazio temporale e in un periodo in cui lo slittamento dell’opinione pubblica verso il rancore sociale è evidente.

E in una fase in cui la credibilità del Paese è in mano solo a Renzi, partner riluttante di un’Europa non gloriosa, mentre l’opposizione grillina è avvitata su se stessa e quella di centrodestra non è ancora pervenuta. Si capisce così perché – passando in un mese dalla poesia del vertice a Ventotene con la Merkel e Hollande alla prosa del summit europeo a 27 di Bratislava – il premier abbia alzato la posta per reclamare una flessibilità di bilancio, altrimenti i conti della manovra finanziaria non tornano.

La partita vera è questa, un’autentica battaglia campale, e la sequenza rigore economico-legge di Bilancio-referendum innesta un meccanismo a rischio, specie in un’Italia afflitta dal macigno del debito pubblico che ci impone, più degli altri eurosoci, di restare sudditi della civiltà dello zero virgola.

Quei vincoli del Patto di stabilità, lo strumento di governo dei conti pubblici, che il presidente della Commissione europea, Juncker, ha definito non essere al contempo né «stupidi» né «flessibili». Concetto non chiarissimo per quello che è un dogma dell’area tedesca, a differenza invece della precisione chirurgica con la quale le richieste italiane sono state schiaffeggiate dal presidente della Bundesbank, Weidmann («C’è stata davvero una politica di austerità in Italia?») e dal commissario Ue agli Affari economici, il francese Moscovici, che pure non è un falco («Non ci sono eccezioni alle regole del Patto di stabilità»). Flessibilità, peraltro già ottenuta l’anno scorso dal nostro Paese, vuol dire recuperare alcuni margini di deficit rispetto al Pil che escono dai già rispettati limiti di bilancio per specifiche situazioni inattese: gli investimenti per il dopo-terremoto, per esempio, che si sommano al miliardo di euro speso per la gestione della crisi umanitaria dei profughi dinanzi alla fuga europea dalla responsabilità collettiva. Lo strappo di Renzi, intendiamoci, oltre che necessario, riflette l’idea originaria del governo di traghettare un europeismo critico e pro-crescita in un progetto riformista in grado di contenere le spinte del ribellismo populista. L’offensiva italiana, rimasta orfana della Francia socialista ormai senza più baricentro, trova però un limite in un obiettivo isolamento. Per riprendere le parole di Napolitano, le critiche di Renzi all’Ue sono comprensibili, ma non si può fare da soli. A cominciare dalla legge di Bilancio, da scrivere con Bruxelles. All’appuntamento non arriviamo nel migliore dei modi: l’economia non gira a dovere, l’export è sceso del 7%, la crisi del sistema bancario non è ancora in sicurezza, la crescita dei contratti a tempo indeterminato è in frenata, le stime del Pil sono al ribasso e nel frattempo la cuccagna dei bassi tassi d’interesse sta raggiungendo il limite delle sue possibilità. Rivedere le stime in negativo significa amputare le capacità espansive di Bilancio e prevedere minori entrate fiscali: diventa così un calvario ottenere quella politica dei conti pubblici «giudiziosa» descritta dal ministro Padoan, tanto più che l’aggiustamento dovrebbe avere in pancia quei 13 miliardi per l’ambizioso progetto di Industria 4.0.

Versante europeo e versante nazionale, che sono poi su una linea di continuità, conducono al cuore del problema, cioè ad un passaggio cruciale che riunisce in modo improprio consolidamento fiscale e referendum. In una parola: in gioco è ora la governabilità, dato che il legame manovra-referendum stabilisce un flusso circolare del consenso fra i due momenti che si condizionano a vicenda, come fossero una partita in due tempi. Nel momento in cui saggiamente Renzi ha cercato di spersonalizzare il referendum, la sovrapposizione dei tempi di un autunno da tempesta perfetta rischia di riportare la consultazione sul terreno impervio di un plebiscito nei confronti del governo e di impoverire il referendum a strumento di lotta politica.

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