Le tasse locali
rompicapo per tutti

Grande è la confusione sotto il cielo contabile delle tasse e dei tributi locali. Narrano le cronache minute (minute?) che un cittadino di Bergamo abbia fermato per strada il sindaco Giorgio Gori e, fra impotenza e disperazione, gli abbia chiesto «che cosa devo fare con questa Isis». Un simile strafalcione (l’Isis è il Califfato dei tagliagole) va assolto con simpatia e guardato con affettuosa solidarietà. Alzi la mano chi riesce a ballare, anche solo come sgradevole scioglilingua, fra Tasi, Imu e Tosap, per restare alla geografia minima. Quel poco di sicuro è che la casa è un bersaglio fiscalmente facile
da centrare.

Il valzer di nomi, regole e scadenze in una materia già arido rompicapo di suo pone il contribuente nella condizione di suddito, in quanto non è libero: non è nelle condizioni di poter disporre del sapere e delle certezze per adempiere ai propri doveri. In attesa di conoscere se a gennaio sale l’addizionale Irpef regionale, aspettiamo di vedere che succede con la prossima local tax, che dovrebbe riassumere tutte le sigle: memori del passato e del presente, ricordiamo che spesso semplificare fa rima con complicare. Il guaio, in questa giungla di leggi e decreti, è che lo spaesamento ha preso pure gli amministratori locali, in particolare quelli del Pd, anche perché sanno che il loro partito non ha più alibi e non può scaricare sulla Lega o su altri responsabilità che oggi appartengono alla formazione egemone: è tutto suo il filotto istituzionale, ad eccezione della Regione Lombardia, cioè ha in mano la catena di comando. Ci mette la faccia a rischio consenso.

Ad una recente riunione del Pd bergamasco su questi temi le frasi ricorrenti sono state: provvisorietà, scoraggiamento, umiliazione. In breve: chi ci deve tassare, e non per colpa loro, non sa con precisione cosa fare, fin dove si può spingere. Il motivo è semplice, anzi parecchio complicato: non c’è un quadro normativo di riferimento che dia certezze. Si può capire così lo sfogo ironico del segretario provinciale dei democratici, Gabriele Riva, che ha invitato Roma a «dimenticarsi di noi». Proviamo a riassumere. La manovra finanziaria, che pure innova e cerca di cambiare verso al dogma dell’austerità, trova il suo lato debole nella sforbiciata agli enti locali, la più pesante come quantità. Sono interventi lineari, quel che il centrosinistra ha sempre rimproverato a Tremonti: non c’è una valutazione di merito, tutti sono uguali e lo è anche il Comune di Bergamo, storicamente virtuoso, che negli ultimi 7 anni ha compiuto sacrifici, fra tagli e contributi al Patto di stabilità, per 35 milioni. Da un lato, è vero, i Comuni hanno una valvola di sfogo dato che il Patto di stabilità è stato allentato.

Dall’altro, però, sul fronte della Provincia, l’ente più penalizzato dai tagli, la confusione regna sovrana: Bergamo, per raggiungere il pareggio di bilancio, è costretta ad una manovra di 9 milioni e 731 mila euro. La parabola delle Province è surreale. Dovevano morire, sono invece risorte dimezzate, ma non sanno cosa sono e che cosa devono fare: quanto e dove spendere quel poco rimasto, quanto e dove tagliare. Anche se, avanti di questo passo con la cura dimagrante, delle due l’una: o si spolpa la carne viva o si aziona la leva delle tasse. Non si capisce quale progetto di società stia alla base di un rapporto così squilibrato fra centro e periferia e quale sia la qualità di una sbandierata democrazia territoriale. Morale: nella manovra c’è una sottovalutazione dell’impatto sul territorio e l’idea, razionalizzando le Province, di ampliare le autonomie locali, si rovescia nel suo opposto. Infatti l’esito potrebbe essere questo: parte delle numerose deleghe della Provincia di Bergamo, le circa 200 aree dove può intervenire, se le potrebbe riprendere il Pirellone nel segno di un obbligato neo centralismo regionale.

In questo braccio di ferro a rimetterci è sempre il contribuente, perché si ripropone la consueta logica della partita di giro, come ha certificato la Corte dei conti nel Rapporto sulla finanza pubblica 2013: non solo non c’è traccia di compensazione tra fisco centrale e locale, ma, di pari passo con l’attuazione del federalismo fiscale, c’è stata un’accelerazione sia delle entrate territoriali sia di quelle centrali. La mano dello Stato taglia i trasferimenti ma lascia invariato il prelievo di sua competenza, mentre la mano locale, per coprire i buchi, aumenta le aliquote dei propri tributi. Grande è la confusione, e soprattutto non nuova.

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