Le vecchia scuola
del concorsone

«Concorsone» è parola che viene da lontano. Fu Luigi Berlinguer, in pieno accordo e su suggerimento dei sindacati della scuola, a progettare nel 1999 uno screening di massa dei docenti, in cambio di un aumento di stipendio. Il senso era chiaro: ti fai valutare e io ti pago di più. Secondo l’art. 29 del contratto collettivo nazionale di quell’anno, veniva «offerta l’opportunità di riconoscimento della crescita professionale nell’esercizio della funzione docente per favorire una dinamica retributiva e professionale in grado di valorizzare le professionalità».

Dopo almeno 10 anni di servizio si poteva aspirare ad un trattamento economico accessorio, consistente in una maggiorazione pari a sei milioni di lire annue, l’equivalente di almeno tre stipendi. A tale «maggiorazione» poteva accedere almeno il 20% del personale di ruolo al 31 dicembre 1999, ma in seguito anche il 30%. A condizione di superare una procedura concorsuale selettiva per prove e titoli. L’accordo durò lo spazio di un mattino, perché gli insegnanti non volevano essere né valutati né differenziati. La base sindacale si scagliò inferocita contro i vertici. I quali si affrettarono a ritirare la scala a pioli, su cui avevano spinto il coraggioso e lungimirante Berlinguer.

Nel maggio del 2000 il governo D’Alema cadde e Berlinguer restò sull’albero. «Concorsone», perché coinvolgeva tendenzialmente almeno mezzo milione degli ottocentomila insegnanti. Quello di questi giorni ha uno scopo diverso, quello di assumere 63.712 docenti. Il Decreto governativo prevede una prova pre-selettiva, qualora il numero dei candidati sia superiore a quattro volte il numero dei posti disponibili. Che, in effetti, arrivano ai 200 mila.

Oggi il treno si mette in movimento con la prova scritta, ma qualcuno ha già minato i binari. Poiché ad ogni «concorsone» corrisponde un «ricorsone», il Consiglio di Stato ha deciso di ammettere alle prove tre ricorrenti laureati, ma non abilitati e perciò esclusi. Poiché gli esclusi oscillano tra i venti e i trenta mila, è possibile che costoro si aggiungano ai 200 mila già in lizza, facendo saltare i cordoni di sbarramento burocratico e fisico, che il Ministero ha frettolosamente predisposto, avendo già allertato le Unioni scolastiche regionali e addirittura le Prefetture. Fin qui i fatti. Quanto all’opinione che se ne può esprimere, non può che essere totalmente negativa. I concorsi sono il peggior metodo possibile di selezione del personale docente nella Scuola, perché semplicemente non sono in grado di accertare il possesso delle competenze-chiave professionali necessarie per essere un bravo insegnante.

Delle cinque competenze-chiave richieste – sapere, saper insegnare, relazionarsi positivamente con i ragazzi, collaborare con i colleghi per costruire la comunità professionale educante, conoscere l’ambiente culturale e civile circostante - il concorso verifica solo la prima, già certificata dal titolo di laurea. Il concorso seleziona chi ha buona memoria, non chi sa insegnare. Spesso sottoproduce una «selezione avversa». Che vinca il peggiore! Se il concorrente ha delle qualità, spesso maturate sul campo in lunghi anni di precariato, il meccanismo non le vede. C’è un’alternativa? Sì, quella dell’assunzione diretta, scuola per scuola, fatta mediante colloqui, analisi del portfolio e del curriculum. Come accade per ogni professione. Ma gli stessi insegnanti e i loro sindacati fanno le barricate, dominati dall’ossessione ideologica della privatizzazione/aziendalizzazione del sistema pubblico di istruzione e portatori non sani dell’egualitarismo burocratico e pauperistico.

E lo Stato amministrativo? Continua ad usare i metodi del reclutamento dell’esercito napoleonico e prussiano. Conclusione: non si riesce a fare la riforma della scuola, senza spezzare lo stato burocratico. Per farlo serve una forza d’urto politica, che per ora non si vede. Chi sono i perdenti in questa storia? I ragazzi, le famiglie, la società italiana.

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