L’eredità preziosa
della Popolare

La Popolare di Bergamo scompare come società. La Popolare di Sondrio continua per la sua strada e, quatta quatta, a suon di ricorsi contro la riforma, è pure riuscita a tenersi stretta, almeno per ora, la forma di società cooperativa per azioni. Una beffa? Chi lo sa. Come disse il poeta: «Ai posteri l’ardua sentenza». Sta di fatto che due banche non troppo dissimili per radici, cultura e stile vedono compiersi destini diversi: quello della Sondrio magari non ancora del tutto scritto; quello della Bergamo tracciato chiaramente e non da oggi. La strada del grande gruppo bancario, che prima o poi si sarebbe potuta trovare a fare i conti con la regola del voto capitario «una testa un voto», è stata imboccata tanti anni fa.

All’epoca del grande risiko bancario, delle fibrillazioni da sinergie, dimensioni e numeri sempre più rotondi, del sussurrare «al lupo al lupo» arriva la calata degli stranieri, la Popolare di Bergamo scelse di non stare a guardare e fece la sua partita: prima nel 2003 nacque Bpu, con la Commercio e industria di Milano; dopo quattro anni fu la volta di Ubi con la Banca Lombarda e Piemontese e lì, dopo i brindisi iniziali, cominciò a sorgere un dubbio mugugnato a denti stretti davanti a un caffè: non è che nel costruire l’alleanza a cavallo dell’Oglio, Bergamo, a detta di tutti più forte, è stata troppo generosa nel realizzare paritetica una partita che avrebbe potuto guidare? Anche qui lasciamo alla storia il compito di giudicare.

Al netto di qualche mal di pancia ormai anacronistico, Ubi oggi è il presente e, a parte i corsi azionari in Borsa, «mal comune mezzo gaudio» tra i titoli bancari, sui quali nello tsunami finanziario di questi anni ben poco avrebbero potuto incidere sia l’eventuale isolamento sia la forma cooperativa, non sembra dare motivo per lamentarsi. Fa il suo mestiere e pare di poter dire che lo faccia anche bene, visti i risultati in varie sedi e su diversi fronti. E visto l’esito della trattativa sulle good banks: tre banche comprate a un euro, più una serie di reti anticaduta che devono aver fatto rosicare non poco altri banchieri che magari avrebbero potuto costruire un’offerta simile, ma non ci hanno pensato.

Ubi diventa banca unica quando sta per compiere dieci anni. Il 1° aprile 2007 nacque popolare, federale e duale. Dei tre pilastri di partenza, da lunedì resterà solo il duale, che significa avere al vertice un Consiglio di gestione e un Consiglio di sorveglianza, unico istituto di credito rimasto in Italia con questa formula. Per ragioni di costi (e sobrietà) andava da sé che prima o poi il principio federale (ovvero sette banche rete, tra cui la Bergamo, con società distinte riunite sotto un unico cappello) prima o poi sarebbe finito. Anche se c’è da augurarsi che, tramontato il confronto tra i risultati delle singole banche, sempre particolarmente lusinghiero per la Popolare, resti una sana competizione interna fra macro aree per dare sempre il massimo e copiarsi l’un l’altra il meglio, tenendo i piedi ben piantati per terra.

Resta qualche interrogativo sul principio popolare. Tenendoci ben alla larga dalle degenerazioni che hanno infangato una nobile idea di democrazia economica e pure da sterili quanto inutili battaglie di retroguardia, all’osservatore ingenuo della strada resta difficile capire come in Canada possa esistere un grande gruppo bancario cooperativo con assets che valgono qualcosa come 260 miliardi di dollari, il gruppo Desjardins, e in Italia no. Storia diversa, è stato spiegato, più simile forse al mondo delle Casse rurali che a quello delle Popolari. Prendiamo atto.

Forse, però, se ci fosse stato il tempo (e la volontà politica del fu governo Renzi) per approfondire e consolidare un processo di autoriforma capace di svecchiare e ammodernare il sistema mettendolo al riparo da derive di ogni genere, vuoi populiste o vuoi autoreferenziali, senza buttare tutto a mare, la storia avrebbe potuto svoltare in un’altra direzione e tenersi lontana dal rischio, ipotetico ma pur sempre possibile, tanto più quando verrà meno il tetto del 5% al possesso azionario, di scalate speculative. La storia però non si fa né con i «se» né con i «ma».

L’auspicio è che la cultura popolare migliore e più sana resti davvero dentro la banca e continui a farla crescere, tenendo la barra a dritta verso una sobria filosofia (ben descritta dal direttore Ranica) della finanza consapevole di avere la responsabilità di gestire il denaro altrui, spesso i risparmi di una vita, e di doverlo fare lontano dai riflettori di risultati magari pirotecnici ma costruiti su piedi d’argilla.

Non resta che dire grazie alla Popolare per il servizio che ha reso allo sviluppo del nostro territorio e buon lavoro: fate in modo che fra altri 148 anni a Bergamo si potrà dire grazie anche a Ubi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA