Lezione francese
all’Italia europea

Il successo del centrista Macron, al primo turno, legittima una soddisfazione che risolleva un umore introverso, ma stabilire un processo virtuoso e automatico tra la Francia del voto presidenziale e l’Italia che verrà dalle elezioni politiche può essere imprudente, benché augurabile. Forse la principale lezione da trarre è che il buon senso (che non ha frontiere) e l’europeismo pagano: tema, quest’ultimo, rimosso da noi, in parte anche da Renzi. Possiamo imparare questo dall’appassionato europeismo di Macron, che farà bene all’Italia e alle istituzioni comunitarie: si può invertire l’onda apocalittica, che non piove dal cielo, ripristinando il sentimento e il progetto di una civile convivenza con un appello al cuore e alla ragione.

Ci sono alcune analogie fra i due Paesi cugini, ma insistervi oltre misura diventa un giochino da salotto. In fondo non ha torto il filosofo Cacciari quando osserva che si continua a votare quel che resta dei partiti storici, o delle loro varianti, «perché gli altri fanno ancora più paura». Certo, Renzi può ricevere un aiutino dal centrismo anomalo e vagamente tecnocratico di Macron, che in questa circostanza ha giocato sui due tavoli: centrosinistra e centrodestra. Salvo ricordare che il prossimo leader del Pd è vincolato da un partito comunque di centrosinistra, e non di centro, e che finora la cattura dei voti moderati è rimasta al di sotto delle attese. Neppure è chiara la percezione italiana del movimento pigliatutto di Macron: per un Fassino che vi vede un centrosinistra da inseguire sulla scia stessa della primogenitura del Pd, c’è un Tajani, presidente dell’europarlamento, che viceversa ne riscontra un centrodestra prossimo venturo. L’entusiasmo di Salvini non può che essere amaro, Berlusconi oscilla fra un’Europa minima invocata fino a ieri e il ritorno fra i popolari europei: insomma, il rebus nel centrodestra continua.

Grillo, fin qui, non è pervenuto, ma la sua è l’area meno esposta ai vincoli esterni: i 5 Stelle non hanno un equivalente in Francia, non essendo sovrapponibili né alla Le Pen né a Mélenchon, e difficilmente sono omologabili all’area anti-sistema europea, perlomeno in modo meccanico. Viaggiano, in definitiva, su coordinate tutte loro e molto italiane. Gli stessi centristi, pur in via di riunificazione, avrebbero un assist da Macron ma si trovano all’opposto: là c’è un leader riuscito ad affermare una collocazione centrale e discontinua rispetto all’asse sinistra-destra, e soprattutto a proporla come un’offerta nuova, in un Paese peraltro che non è fatto né per i liberali né per le posizioni di mezzo. Detto questo e al netto delle diversità elettorali e istituzionali che sono di sostanza, il voto in Francia ha comunque espresso alcune tendenze che ci riguardano. La prima interessa la forza del leader e la personalizzazione della politica: piaccia o meno, si tratta di una costante ormai strutturale, cioè di lunga durata. La seconda è che, almeno in questa fase storica, lo spazio politico si consuma fra Europa sì-Europa no rispetto all’antitesi destra-sinistra. La terza è il superamento della forma burocratica dei partiti di massa che lascia spazio a movimenti d’opinione trasversali, in stile rassemblement, e via internet.

Il quarto fattore, forse il decisivo, si riferisce al crollo verticale dei socialisti, quindi al venire meno di un baricentro: quella francese non è solo la disfatta di un partito, ma la cancellazione di un pezzo di storia e di una comunità di uomini in carne e ossa. Vale per la Francia, ma è così in quasi tutti i grandi Paesi europei: dal recente schianto in Olanda alla Grecia, dalla Spagna all’Inghilterra dove i laburisti sono ai minimi storici. Le sole eccezioni vengono dalla Germania, dove i socialdemocratici sembrano in ripresa, e dal Pd italiano che tuttavia non può definirsi socialista in termini propri. L’ultima questione si riferisce al centrodestra: in Francia ha sbagliato candidato ed è stato sconfitto, ma non ha subito un tracollo pari a quello socialista. La traiettoria dei conservatori, in un mondo piegato a destra, resiste meglio rispetto a quella dei suoi competitori di sinistra e andrà seguita con attenzione, perché le fortune dei populisti dipendono anche dal contrasto o meno dei conservatori. E il fatto che gli ex gollisti, almeno a parole, abbiano deciso di stare dalla parte dei valori repubblicani indica che anche in quella metà campo la storia democratica non è passata invano.

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