L’italia banalizzata
dei talk show

La «gente» non esiste, se non come astratta categoria sociologica. Esistono le persone, ognuna contraddistinta da pensieri e interessi non sempre facilmente catalogabili. Eppure nei media è in voga la pretesa di rappresentare invece la «gente», definita in base a pigri stereotipi e a facili generalizzazioni, rifugio per evitare la fatica di dare voce alla complessità della società. Alcuni talk show sono campioni del «gentismo»: ne hanno fatto una bandiera ideologica, un palinsesto identitario con una funzione quasi sociale, se non addirittura catartica, dando sfogo a quella porzione di popolo eternamente arrabbiata, che si ritiene vittima di imprecisate e oscure macchinazioni delle élite.

L’obiettivo di questi salotti televisivi non è sviscerare i problemi con competenza individuando responsabilità e possibili soluzioni, ma aprire i microfoni al malcontento per rigettarlo contro il politico ospite in studio, incarnazione dei mali e delle ruberie italiani. Senza mediazioni, in una sorta di democrazia diretta spettacolarizzata.

Qualcuno però si ribella, perché evidentemente c’è un limite a tutto. È successo a Gianfranco Rotondi, deputato di Forza Italia. Ospite qualche giorno fa di una trasmissione Mediaset, ha abbandonato lo studio dopo che in diretta da una piazza di Marigliano (Napoli) era stato fatto oggetto di un coro vergognoso al grido ripetuto di «ladri» rivolto ai politici in generale e a lui in particolare. Lasciando lo studio, Rotondi ha annunciato querele nei confronti degli urlatori e del conduttore che non ha censurato gli insulti. L’uscita di scena è stata invece condannata dal giornalista (e da un altro collega di supporto) con la critica che «questa è la gente, che voi del palazzo continuate a non conoscere». Poi si è appreso che quella gente altro non era che militanti del movimento 5 Stelle, compresi un consigliere regionale e un già candidato sindaco. Qualche giorno prima invece era stato Giuliano Cazzola ad abbandonare un altro studio televisivo (questa volta di La7), innervosito da un faccia a faccia sul tema caldo delle pensioni. L’ex sindacalista ed ex parlamentare ha poi annunciato che non parteciperà più a quei format, dove è impossibile articolare i ragionamenti necessari alla comprensione e al dibattito di materie complesse. Una resa, ma forse anche finalmente la presa d’atto necessaria dell’inutilità di prestarsi a un ruolo banalizzato.

È nel nome e nella natura dei talk show rendere la parola spettacolo. Ci sono però temi non riducibili alla schermaglia delle opinioni che fa tabula rasa dei fatti. Andrebbe chiarito senza ipocrisie il fine dei media, in un periodo storico difficile e complicato: la responsabilità di raccontare i problemi del Paese e di individuarne vie di uscita, incalzando chi riveste incarichi politici e amministrativi, o il solo intrattenimento fine a se stesso, nell’eterna contesa per lo share? Una domanda tanto più urgente per il servizio pubblico e quindi per la Rai. L’incredibile scivolone sulla lista sessista dei pregi delle donne dell’Est Europa, durante la trasmissione «Parliamone Sabato», può essere archiviato come un incidente di percorso, censurato anche nei social (contravvenendo quindi allo stereotipo di nuove piazze solo in balia di grevi urlatori).

Ma l’impressione è che anche la tv pubblica necessiti di un deciso salto di qualità che dia voce e valorizzi le competenze culturali italiane, tanto più quando si dibatte di urgenze sociali. C’è un Paese che è stanco del giochino sottile ma ormai manifesto di contrapporre nei salotti televisivi punti di vista di chi si parla addosso, con l’obiettivo di tenere alto il tono e quindi l’audience a discapito del merito delle questioni. Serve il coraggio di sperimentare nuove vie non dando per scontato l’esito negativo. Anche questa Italia chiede di essere rappresentata mediaticamente, magari non nei palinsesti notturni, quando si smorzano le luci e i rumori. Non è la «gente», ma cittadini consapevoli che l’indignazione senza uno sbocco costruttivo ci consegnerà all’inconcludente corrida degli umori e alla parodia delle emozioni.

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