L’unione europea
che muore di stenti

Morire di stenti. Questa è la triste sorte che minaccia l’Unione europea. Non la ammazzeranno i partiti apertamente antieuropeisti, ma rischiano di finirla, per incuria, i timori, i ritardi, i calcoli, gli interessi dei governi nazionali, incapaci di quell’atto di coraggio necessario per liberare l’Ue dalla palude e volgerla verso un approdo federale.

Le recenti elezioni in Paesi europei hanno confermato questo diffuso malessere verso l’Europa. Nel Regno Unito, che tradizionalmente opera come freno a mano del cammino di integrazione politica europea, hanno vinto i conservatori grazie anche alla promessa di Cameron di far svolgere un referendum sulla permanenza nella Ue. Per dare una chance alla permanenza britannica nell’Ue, Cameron spingerà – c’è da scommetterlo – per soluzioni al ribasso che sviliranno ulteriormente il profilo unitario dell’Europa. In Polonia si afferma una leadership, quella di Duda, cattolico-tradizionalista ed euroscettica, sul modello inquietante dell’Ungheria di Orban. Se ci aggiungiamo la situazione, certo differente per segno politico ma non per visione antieuropea, della Spagna, con l’affermazione locale di Podemos, componiamo un quadro che racconta di una frammentazione partitica, in cui, nelle singole nazioni, prendono quota schieramenti non riconducibili alle grandi anime (oggi molto ingrigite) ispiratrici dell’unità europea: forze di ispirazione cattolico-liberale a destra e socialdemocratiche o cattolico-sociali a sinistra.

In questo quadro, la strategia del galleggiamento e l’egemonia miope della Germania della Merkel non promettono nulla di buono. E l’idea di alcuni governi di ritenere sufficienti le riforme prodotte in materia di disciplina finanziaria (Fiscal compact) e di unione bancaria appare un’illusione mortifera, così come mortifera sarebbe l’uscita dall’euro della Grecia, che – oltre a impoverire, anche sul piano simbolico, ciò che resta dell’anima culturale dell’Ue – additerebbe a tutti come possibile un percorso di disgregazione.

Questo destino non è però, per nostra fortuna, già scritto. Il Consiglio europeo di giugno offre una nuova occasione per invertire la (retro)marcia. Si ragionerà intorno al tema cruciale e ineludibile della riforma e del completamento dell’Unione economica e monetaria, a partire dal Rapporto del 2012 dei quattro presidenti (della Commissione, del Consiglio europeo, della Banca centrale e dell’Eurogruppo) che prospettava e rilanciava gli obiettivi delle unioni bancaria, di bilancio, economica e politica. La direzione è dunque tracciata, ma servono decisione e coraggio per superare questa assurda anomalia di una moneta unica con 19 (i Paesi dell’Eurozona) politiche economiche, fiscali e sociali diverse e contraddittorie. «L’euro non è solo una moneta, è anche un progetto politico»: lo hanno ribadito, nel febbraio 2015, i presidenti della Commissione Juncker, del Consiglio europeo Tusk, dell’Eurozona Dijsselbloem, e della Bce Draghi. Nella guida di questo progetto, ai quattro si aggiungerà, ed è davvero necessario, il quinto presidente, quello del Parlamento europeo, Schulz.

Si tratta di dimostrare che la moneta unica non è stata un errore: è vero piuttosto che è stata una fuga in avanti, che implicava e anzi implorava uno scatto corrispondente, nella medesima direzione, delle politiche fiscali, economiche e di protezione sociale. Del resto l’Ue è sempre, nella sua storia, progredita in questo modo: con scatti in avanti a cui la politica ha saputo, nel tempo, tenere testa con progressi nell’integrazione. Questo processo si è però inceppato da qualche anno e deve ripartire senza timidezze.

Ci piace segnalare che il governo italiano sta spingendo nella direzione giusta, certo non senza averne qualche convenienza: l’insistenza perché si adotti il cd Piano Juncker a sostegno alla crescita, nonché la pressione perché l’Ue assuma la responsabilità dei rifugiati e del dramma del Mediterraneo rispondono indubbiamente anche a bisogni italiani. Nel suo contributo in vista del Consiglio europeo di giugno, il governo ha chiesto, tra le altre cose, l’adozione di meccanismi comunitari di sostegno contro la disoccupazione, il rafforzamento del bilancio europeo per alimentare una politica economica di investimenti. L’unica via, ragionevolmente praticabile, per arrivare a questo risultato, è una cooperazione rafforzata, che trasformi l’Eurozona nell’avamposto di un’Europa politica, cuore federale di un’Europa a più velocità.

Per dare propulsione a questo scatto, il carburante più pulito dovrebbe però venire, al di là delle posizioni più o meno interessate dei governi, da una cittadinanza e una cultura genuinamente europeistiche. Non possiamo dire che manchino, ma certo non hanno trovato ancora il modo per rendersi visibili e protagonisti.

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