Ma il nodo è quello
della credibilità

In cinque anni 336 parlamentari hanno cambiato partito, 203 deputati e 133 senatori per un totale di 524 cambi di gruppo. E la migrazione non sembra finita. Le leggi elettorali sono per definizione perfettibili. Possono piacere e non piacere secondo le convenienze del momento, ma di norma tengono. La Gran Bretagna ha una legge elettorale che fra quindici anni arriva ai due secoli di vita, gli Stati Uniti hanno un sistema complicato che però resiste dal 1842, la Germania ha avuto un percorso tormentato nella sua storia ma dal 1956 elegge i propri rappresentanti sempre con le stesse modalità .

L’Italia è arrivata a quarantasette anni con il proporzionale, poi con la cosiddetta seconda repubblica e senza più vincoli esterni, vedi la tutela americana e il mondo diviso in due blocchi, ha permesso di adattare i sistemi elettorali alle esigenze di partito. Posti in questi termini le modalità di elezione diventano per i partiti questione vitale. E con ragione. Dai meccanismi d’elezione dipendono poi le possibilità di trovare una vantaggiosa collocazione in sede parlamentare.

Ma per il Paese è un bene? Certo che no, perché crea instabilità ed è l’ultima cosa che l’Italia con un forte debito possa desiderare. E non lo è nemmeno per i diretti interessati. Il cosiddetto Porcellum nel 2005 modificato nella sua versione originaria maggioritaria è stato piegato agli interessi dei vari partiti allora al governo ma non ha portato loro fortuna: alle elezioni del 2006 hanno perso e lasciato il bastone di comando a Romano Prodi. Il problema vero è quindi quello di avere una classe dirigente in grado di guardare al di là del proprio naso e quindi di fissare regole che assicurino la neutralità necessaria. E qui veniamo al punto: è possibile ipotizzare di fare affidamento su un personale politico che per il 35,37% ha cambiato gruppo di appartenenza politica per almeno una volta? La disaffezione per la politica nasce anche da questo. Non potersi fidare di chi è stato scelto per rappresentare gli interessi della comunità nazionale è il male nascosto della vita pubblica italiana. E d’altra non possiamo dire che i nostri eletti siano stati imposti: sono stati liberamente scelti dai cittadini. Da qui il dubbio che ciò che si evidenzia in Parlamento abbia un suo retroscena non nei meccanismi elettorali ma nella capacità di scelta dell’elettore. In Sicilia quando le vacche erano grasse si diceva del politico di successo: mangia ma fa mangiare anche noi. E quindi lo si votava.

Esiste in parti d’Italia un rapporto non corretto con la politica. Un tacito accordo che a dispetto di qualsiasi appartenenza ideale vede affermare l’interesse di clientela. Ed è probabilmente questo il motivo per il quale defezioni e migrazioni di partito in partito, di scissione in scissione, di frazione in frazione vengono tollerate dall’opinione pubblica e non condannate con la dovuta forza. Di recente nel Parlamento della Bassa Sassonia in Germania una deputata dei Verdi è passata ai cristiano democratici ed ha fatto cadere il governo regionale. È stato un evento perchè gli elettori non perdonano simili atteggiamenti. In Olanda ci sono voluti 200 giorni per arrivare ad un contratto di coalizione. La maggioranza del nuovo governo è appesa ad un voto. Ma terrà. Chi perde la faccia nei Paesi Bassi ha perso anche i voti.

Il problema italiano non sono quindi le tecniche elettorali ma la credibilità di chi è chiamato ad applicarle. C’è una sola condizione che garantisce tenuta nel tempo: la percezione di un’emergenza, di un possibile default a causa del quale tutti hanno qualcosa da perdere. A Bruxelles sanno che l’unico modo per rendere l’Italia governabile è tenerla al guinzaglio. La colpa di questa sovranità limitata non va però cercata in Belgio.

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