Malessere global
per il ceto medio

Il libero scambio ha danneggiato l’Occidente, il commercio internazionale ha generato squilibri occupazionali: la globalizzazione ha spinto la produttività e ridotto i prezzi al consumo, ma i governi hanno fallito nell’aiutare i lavoratori più colpiti dalla competizione senza frontiere. Non sono i no global o i populisti a dire questo, ma il braccio operativo e ideologico dell’internazionalizzazione: Fondo monetario, Organizzazione mondiale per il commercio (Wto), Banca mondiale. Il commercio sta lasciando indietro troppe persone e può avere effetti negativi su alcune tipologie di lavoratori e su alcune comunità, riconosce il rapporto in quella che sembra una risposta ai sovranisti europei e a Trump.

L’asprezza della concorrenza va mitigata per correggere i risultati indesiderati del mercato (pressioni sui salari, disoccupazione, deindustrializzazione): gli scambi senza barriere vanno sostenuti, tuttavia occorre mobilitare più tutele per chi è senza lavoro. Politiche che si stanno tentando nel Nord Europa, Danimarca e Finlandia, cioè quel modello sociale che continua ad essere un laboratorio per chi ritiene che, anche nell’era della globalizzazione, si possano coniugare equità ed efficienza.

Non è la prima volta che organismi internazionali (il Fondo monetario è stato il primo a cambiare orientamento con le presidenze dei francesi) denunciano i limiti della dottrina liberista, ma la coincidenza con l’offensiva dei populisti sottolinea il risvolto sociale e politico del dossier. In realtà da qualche tempo fenomeni come la delocalizzazione delle industrie sono in fase di parziale rientro a casa, la stessa globalizzazione sta arretrando già da alcuni anni e tutta la filiera delle liberalizzazioni anni ’90 ne risente: nel piccolo mondo italiano, le privatizzazioni ancora in agenda sono state archiviate dal governo Gentiloni.

Studiosi come l’economista Mario Deaglio (l’ultimo saggio è comparso sulla rivista «Aspenia») segnalano non da oggi il procedere di un protezionismo strisciante che ha predisposto l’ambiente per l’affermazione dei populisti: «Le esportazioni procedono più lentamente della produzione, il che lascia supporre che il mondo sia entrato in una fase di deglobalizzazione». Quella che era ritenuta una condizione irreversibile votata al benessere e alle opportunità per tutti, sostenuta da una convinzione dogmatica e dall’ottimismo americano, sta vivendo serie difficoltà nello scontro con le nostalgie nazionaliste, con i costi disuguali della modernizzazione e con i radicali mutamenti della natura del lavoro prodotti dalle tecnologie. E sono proprio le società più avanzate, che per un lungo periodo hanno beneficiato della globalizzazione, a subirne pure gli effetti negativi: le vecchie sicurezze, dal lavoro allo Stato nazione, non hanno la solidità di una volta, l’efficacia dei governi s’è ridotta, il ruolo di mediazione dei partiti e dei sindacati è stato eroso.

È andata in tilt la relazione virtuosa fra economia di mercato, democrazia rappresentativa e coesione sociale: una rotta di collisione fra l’Europa economica e quella sociale che s’è accumulata dagli anni ’90 in poi, aggravata dalle tante crisi di questi anni.

Siamo entrati in una nuova fase, segnata dalla stanchezza di un mondo global stressato, sotto i colpi della frattura storica imposta dalla lunga recessione e in presenza di nuovi protagonisti che cambiano lo schema di gioco: è il caso delle grandi multinazionali dell’informatica, spesso in conflitto con i singoli Stati. Una vasta letteratura di diverso orientamento concorda nel delineare il volto positivo e quello in deficit della globalizzazione: l’uscita dall’economia di sussistenza e la riduzione delle differenze di reddito nei Paesi in via di sviluppo e la contemporanea esplosione delle disuguaglianze, dell’impoverimento del ceto medio nelle aree industrializzate (Europa e America) e della distruzione di professionalità lavorative di medio livello. La ritirata del ceto medio che continua a scendere verso il basso, il declassamento di status del corpaccione di mezzo sono la rottura traumatica che attende di essere riparata, specie in realtà ad alta vulnerabilità sociale come l’Italia.

Proprio in questi giorni il sociologo Marzio Barbagli, sul sito degli economisti lavoce.info, parlava di un «malcontento di classe» che, con l’esclusione dei dirigenti, è cresciuto in tutti gli strati raggiungendo imprenditori e professionisti: un malessere che, pur diminuito negli ultimi tre anni, supera di gran lunga la quota di inizio Duemila. «È indubbio – scrive il sociologo – che la piccola borghesia e la classe operaia sono oggi più lontane di un tempo non solo dai dirigenti, ma anche dagli imprenditori e dai professionisti». La stagione del populismo si può quindi raccontare anche attraverso la caduta del ceto medio-basso, senza più l’ascensore sociale.

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