Mani pulite e lo scarto
tra attese e realtà

È l’Italia del disincanto quella che in questi giorni rivede Mani pulite dopo 25 anni, la grande slavina che ha travolto tutto: l’acqua sporca e il bambino. Una bonifica giudiziaria, partita dal pool della Procura di Milano, che non ha avuto precedenti e uguali altrove. Anche altri Paesi (come la Germania dove era stato affondato Kohl) hanno conosciuto indagini simili, ma di minore portata. Il big bang italiano ha decimato la prima linea della classe politica che aveva costruito l’Italia repubblicana, finita sotto il peso di un sistema di finanziamento illecito dei partiti, cui si legavano in molti casi fenomeni di corruzione: Tangentopoli.

La spallata giudiziaria - fra universo politico annichilito e opinione pubblica che applaudiva - è stata la chiusura di una partitocrazia giunta esausta al capitolo finale, un ceto con più potere rispetto alla rappresentanza e quindi più esposto alla corruzione. Il bisturi togato ha inciso su una situazione ormai involuta per la crisi dei partiti di massa e della stessa democrazia rappresentativa. La fine del comunismo, il nemico storico, aveva già detto che un partito come la Dc non era più insostituibile. In quell’anno, nel ’92, si firma il Trattato di Maastricht, che prepara l’euro e che mette in evidenza la crisi fiscale dello Stato italiano, e i referendum di Segni aprono una nuova fase.

La stessa società, e soprattutto il mondo produttivo, pensavano di cavarsela da soli, senza il guinzaglio dei partiti. Non c’erano più le condizioni perché quel sistema potesse reggere ancora. Nell’estate ’92, poi, la mafia uccide i giudici Falcone e Borsellino. Mai come in quel periodo la magistratura fu circondata da un consenso così unanime, che sembrava andare anche oltre i compiti propri dell’azione giudiziaria, quasi assegnando alle Procure l’espressione della volontà popolare. Una politica in ritirata aveva delegato alla magistratura, specie quella inquirente, non solo il contrasto di singoli crimini, ma dei grandi fenomeni degenerativi: il terrorismo prima, con esiti peraltro positivi, la corruzione e la criminalità organizzata poi.

Il terremoto determina nuovi equilibri che s’instaurano fra politica e magistratura: una questione delicata e controversa, quella della supplenza dei giudici, che ha diviso attraversando tutta la Seconda Repubblica. Come sempre nelle vicende penali di massa, a ciò che era necessario e doveroso dal versante giudiziario il contesto esterno e l’impatto traumatico aggiungono altro e talora di sgradevole: la corsa a fare di ogni erba un fascio abbandonando il senso del limite, il cappio in Parlamento, il venir meno di una certa pietas dinanzi ai drammi umani, un clima irresistibile di sospetti liquidatori, il sorgere della piazza mediatica (tv pubbliche e berlusconiane) che hanno trasformato i processi in eventi e i cittadini in spettatori. Ne è derivata, sul piano del costume e della percezione, una semplificazione a buon mercato: la pretesa di una superiorità morale della società civile rispetto a quella politica (distinzione che non esiste in natura), il timbro sui partiti come luogo esclusivo del malaffare, il declassamento dell’intera parabola dell’Italia repubblicana a «storia criminale».

Una storia democratica riletta con un criterio penale. Un punto di partenza, questo, per capire i frutti avvelenati di quel collasso: il formarsi della «politica dell’antipolitica». Un tritatutto pure di strumentalità e piccole furbizie. Il Pci-Pds, riuscito sostanzialmente a salvarsi, forse riteneva che, cavalcando l’onda, avrebbe potuto raccogliere i frutti di quello schianto. In realtà l’uscita di Tangentopoli è avvenuta sul fianco del centrodestra: con Bossi prima e Berlusconi poco dopo, i due grandi beneficiari del cedimento della Prima Repubblica, con il secondo che - fra questioni giudiziarie personali e leggi ad personam ­- ha poi cercato di mettere in discussione il ruolo dei giudici nel sistema politico.

Quel che è avvenuto da allora non è stato l’inizio di un’era felice, perché la dura replica dei fatti ha illustrato lo scarto fra attese e realtà: sia per i rinnovati allarmi sulla corruzione, fattore endemico della società italiana, sia per la qualità di una politica fattasi iperconflittuale e non esente dall’antico vizietto. Dando a Cesare quel che è di Cesare, fra ieri e oggi è mancata la responsabilità di un esame di coscienza collettivo. L’Italia delle occasioni mancate è sempre con la valigia in mano, in viaggio nell’infinita transizione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA