Non è sempre colpa
della burocrazia

L’approvazione, da parte del Consiglio dei ministri, dei decreti delegati per la riforma della Pubblica amministrazione è avvenuta nello stesso giorno in cui un’inchiesta della Procura di Napoli, al termine di una accurata indagine, porta all’arresto di 55 dipendenti dell’ospedale «Loreto mare». La coincidenza dei due avvenimenti è stata una vera manna dal cielo sul piano mediatico, offrendo spazi al dispiegarsi dei consueti luoghi comuni sulla Pubblica amministrazione come covo di milioni di perdigiorno e luogo di diffusi e inestirpabili privilegi. Alla base una pigrizia mentale che induce a ritenere le pubbliche amministrazioni tutte uguali.

Tra loro e/o al loro interno. Basterebbe paragonare l’Inps e gli uffici della presidenza del Consiglio dei ministri. Due mondi lontanissimi come la Terra e la galassia scoperta in questi giorni: quaranta anni luce. Ritenere questa «congiunzione astrale» un argomento utile a mettere le ali ai propositi di migliorare la qualità del sistema pubblico e di pervenire finalmente ad un’amministrazione che – secondo lo slogan del Rapporto Gore del 1993 in Usa – «costi meno e produca di più» è del tutto erronea. Per molteplici motivi. In primo luogo perché le riforme di carattere strutturale (e nessuna più di quella della pubblica amministrazione lo è) non si fanno «contro». Ma si fanno solamente «pro». Cioè a vantaggio di tutti: dei cittadini, che sono i titolari della sovranità; del ceto politico che necessita di burocrazie in grado di attuare le norme varate dal Parlamento e di corrispondere agli indirizzi di governo; dei fruitori dei servizi resi dalle amministrazioni (in testa coloro che svolgono attività economiche).

Comunemente si tende a credere che le inefficienze del sistema amministrativo siano esclusivamente colpa delle burocrazie. Ogni impedimento, ogni ritardo diventa «vizio burocratico». Le cose non stanno esattamente così. Intanto larga parte delle lungaggini dell’azione delle amministrazioni deriva da cattive norme, volute dai governi e approvate dal Parlamento. Gli impiegati pubblici laboriosi e onesti – che sono la larghissima maggioranza – sono le prime vittime di leggi astruse, contraddittorie, difficilissime da comprendere e da applicare. A ricaduta, i cittadini ne pagano le spese. Nel contempo, una legislazione confusa e torrenziale alimenta il continuo ricorso ai giudici ordinari e amministrativi. Che diventano spesso i veri «decisori» riguardo ai diritti e ai doveri dei cittadini. Che i guasti dell’amministrazione dipendano anche da fattori esterni non assolve, ovviamente, i dipendenti pubblici infedeli. Per essi devono essere adoperati i medesimi sistemi in vigore nel mondo privato. Ma il contrasto ai fenomeni devianti è tutt’altra cosa dall’obiettivo (sacrosanto) di rendere più funzionante il sistema amministrativo. E per far ciò è necessario un progetto di alto profilo politico e elevata caratura tecnica.

Entrambe le condizioni sembrano mancare quasi del tutto. Renzi aveva definito la riforma dell’amministrazione la «madre» di tutte le riforme. Peccato che a tale roboante proclama sia seguito un profluvio di norme, sovente contrastanti e raffazzonate. Al punto che molte di esse sono cadute sotto la tagliola attenta della Corte costituzionale. Insomma, ad oggi, la «madre di tutte le riforme» non sta affatto bene. I miglioramenti dovrebbero arrivare dall’applicazione dei decreti approvati giovedì scorso. Presto per dire cosa succederà. Una cosa è, però, certa: molte delle ricette vendute come rivoluzionarie e innovative non sono affatto tali, ma ripropongono meccanismi e regole ripetutamente proposte e mai realmente rese operanti. Chissà se la montagna partorirà ancora una volta il topolino, o si avranno cambiamenti veri. Sperare è doveroso, essere convinti implica una smisurata dose di ottimismo.

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