Nuova Europa
l’efficienza necessaria

«La nostra Unione è indivisa e indivisibile» si legge nel documento finale firmato dai leader europei. L’Europa a sessant’anni dal Trattato di Roma lenisce le ferite della Brexit con una certezza che è auspicio. È vero, sono partiti in sei ed ora i membri dell’Unione sono 27. Ma nel 1957 nella sala degli Orazi e dei Curiazi splendeva il bel sol dell’avvenire mentre ora il futuro più che una promessa è una minaccia. La nuova Europa ha ben poco da spartire con le attese iniziali dei sei Paesi fondatori.

Soprattutto non è animata dallo stesso spirito solidaristico. Chi osa più parlare di federazione europea? Nel corso degli anni il baricentro si è spostato da Bruxelles ai governi nazionali e ne è nata un’Unione euro-carolingia a dominazione tedesca (copy right Ernesto Galli della Loggia). All’interno di questo consesso la devoluzione della sovranità nazionale significa demandare agli altri governi il potere di incidere nelle realtà interne del proprio Paese. Con la Commissione in crisi di legittimità viene meno un’autorità tecnocratica e non eletta alla quale i Trattati europei però riconoscono una terzietà al di sopra degli interessi nazionali dei singoli Stati. Ne consegue ora che il potere di interdizione viene fatto proprio dallo Stato più forte. Un evidente conflitto di interessi perché ciò che fa bene alla Germania non sempre può far bene all’Europa. Stiamo parlando di Paesi che ambiscono a piazzare i loro prodotti in forte concorrenza fra di loro. E la stessa Germania con un surplus dell’export al 9% circa del Pil ha in Europa il suo mercato di riferimento. I sottoscrittori stranieri del debito pubblico italiano non sono rappresentati dalla Germania ed anche il Fondo salva Stati non acquisisce la sua autorità dal fatto di essere presieduto da un tedesco.

Nessuno ha concesso al governo tedesco la legittimazione democratica di rappresentare gli interessi dell’Europa. Eppure la politica economica dei governi è fortemente condizionata dall’opinione che se ne fa Berlino. L’esecutivo tedesco esercita pressioni su Bruxelles e dalla capitale belga arrivano gli ultimatum. È stato così con Atene, rischia di divenirlo anche con l’Italia del governo Gentiloni. È un’evidente degenerazione del modello originario. Non abbiamo più un insieme di eguali ma una stratificazione gerarchica. Una successione di gradi, dai più vicini agli interessi tedeschi ai più lontani, in una subordinazione che può indurre a valutazioni di tenore più militare che politico. Un pasticcio di cui lentamente si rendono conto anche a Berlino. Chi l’avrebbe detto che un europeista convinto, già presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, risultasse primo nelle proiezioni elettorali per il voto di rinnovo del Bundestag in settembre? Anche il cittadino tedesco inizia forse a capire che non si può sempre dare addosso con l’austerità ai ritardari senza offrire opportunità di crescita. Le responsabilità del primo della classe sono dunque chiare ma non devono essere strumentalizzate.

Chi ha debiti non può pensare di venirne fuori con politiche di crescita improntate alla creazione di altro debito, dando la colpa alla Germania. È noto dagli studi di Reinhart-Rogoff che con un’esposizione debitoria superiore al 90% di fatto la crescita viene rallentata e non vi è altra possibilità che ridurre le spese. I Paesi che hanno ridotto la spesa pubblica, la Spagna dal 46 al 43,3 %, l’Irlanda dal 47,2 al 35,9% sono cresciuti rispettivamente del 3,2 % e del 6,9%. In Italia la velocità di crescita del debito pubblico supera quella dei prezzi.(Dati della Fondazione David Hume). Occorre essere efficienti. Per esempio nel combattere la corruzione. Costa 60 miliardi, dati della Corte dei Conti. Ma se ne parla solo sui giornali.

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