Pannella, quando
la politica era un’idea

Per quelli della mia generazione appassionati come me alla politica, per i cinquantenni di oggi, Marco Pannella è stato una sorta di eterno compagno di viaggio, una presenza costante e significativa. Quando ho cominciato ad interessarmi alla politica, verso la metà degli anni Settanta, lui era già lì, e lo era da tempo.

Aveva fondato il Partito radicale vent’anni prima, aveva già vinto la battaglia sul divorzio e si apprestava a ottenere la più importante vittoria elettorale della sua vita, quasi un milione e trecentomila voti nelle elezioni del 1979. Debbo confessare che nei suoi confronti ho sempre provato sentimenti profondamente ambivalenti. Da un lato ne ho tante volte riconosciuto il coraggio solitario, la tenacia, l’intuizione geniale, lo slancio visionario, quella deliziosa assenza di provincialismo che lo hanno solidamente ancorato - caso rarissimo per un italiano - allo scenario politico globale. Dall’altro, ne ho, forse altrettanto spesso, mal sopportato quel gusto eccessivo per l’enfasi, la provocazione, l’estremismo, il protagonismo personalista e in definitiva il narcisismo esasperato.

Ho sempre pensato, in accordo con la tradizione liberalsocialista e rosselliana dalla quale anch’egli veniva, che la dose più grande di libertà debba combinarsi con una altrettanto ingente dose di eguaglianza. Ma si sa che quest’ultimo valore per Pannella contava poco o nulla. Lui, i legami li voleva distruggere tutti. Voleva fare a pezzi tutte le solidarietà e lasciare sul campo solo gli individui, e poco gli è sempre importato che tra questi vi fossero enormi differenze di risorse materiali.

Ciò che contava per Pannella era che essi fossero liberi di agire secondo i loro interessi autonomamente determinati. Lui è stato, nel bene come nel male, un borghese e quello che nella tradizione politica anglosassone si chiama un «libertarian»: un sostenitore accanitissimo dei diritti civili in ogni loro forma, e insieme del mercato, della deregulation, della competizione sfrenata, del darwinismo sociale.

Adesso che non c’è più, e di fronte allo spettacolo di una classe politica quasi mai edificante, bisogna ammettere che la cifra più grande e originale di Pannella, quella per cui sopra ogni altra cosa egli merita di essere ricordato, è stata la sua totale, appassionata, ovviamente radicale distanza da ogni forma di interesse personale, da ogni attaccamento a qualsivoglia manifestazione del potere. La lotta alla partitocrazia l’ha combattuta davvero usando la propria pelle, rinunciando per tutta una vita ad occupare anche una sola sedia di governo, anche un solo scranno di consiglio di amministrazione.

I radicali hanno formato una buona parte della classe dirigente del Paese (l’elenco dei nomi sarebbe troppo lungo), ma non si sono mai dedicati alla sua gestione. Quando lui fiutava questo pericolo compiva uno scarto, sorprendeva tutti lasciando il campo e costringendo i suoi a fare lo stesso. Ai posti di comando Pannella ha, in tutta la sua lunga esistenza, preferito sempre il serrato e costruttivo confronto di idee; alle mazzette ha anteposto le battaglie referendarie; agli onori di una carica la fatica di uno sciopero della fame.

Non è stato mai un uomo di governo. E non per incapacità o perché sconfitto, ma piuttosto perché troppo innamorato della politica come lotta di ideali, competizione tra visioni del mondo. Addio Marco, sentiremo ancora a lungo la tua voce nelle nostre coscienze.

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