Pensioni, il blocco
e l’interesse del Paese

Il tema pensioni va maneggiato con cura, perché riguarda l’orizzonte di vita, i progetti di milioni di persone. È al tempo stesso un grande problema di finanza pubblica perché quasi metà della spesa italiana è sociale. Le grandi agenzie di rating giudicano la capacità di un Paese a contenere il debito in base ai prospetti pensionistici, che forniscono i più sicuri calcoli sul futuro equilibrio finanziario. È dunque un grande problema politico, forse quello che più riassume i temi della società di oggi, con trasformazioni che debbono essere governate, se giustamente non si vuole abbandonare il modello di Stato sociale che in Europa non ha pari nel mondo . Negli Usa, sanità e previdenza sono temi di responsabilità individuale: ti pago un po’ di più in busta paga ma poi arrangiati, con i risparmi e le assicurazioni.

Essendo politica, la questione è però esposta ai venti elettorali e, in un Paese di anziani, questo diventa decisivo, anche se ciò di cui si discute non sono né le pensioni in atto, la cui intangibilità è protetta dalla Costituzione, né quelle di chi ha già alle spalle un medio-lungo periodo lavorativo, protetto proporzionalmente dalle vecchie regole, quanto meno per la parte economica. Il passaggio al contributivo per tutti introdotto dalla Fornero ha davanti a sé almeno 20 anni per realizzarsi totalmente. Il tema riguarda se mai i giovani, ma quest’ultimi alla pensione non pensano, un po’ per ragioni anagrafiche, un po’ perché hanno il forte e fondato dubbio che, cominciando ora a lavorare, percepiranno molto meno dei padri e dei nonni. Ma è un falso argomento contrapporre il prolungamento del tempo di lavoro all’entrata delle nuove generazioni, perché il mondo produttivo chiede oggi capacità professionali solo in piccola misura fungibili. Tra 20 anni, si calcola, il 45% dei lavori di oggi saranno superati, e c’è piuttosto da sperare che quelli nuovi richiesti diano un numero sufficiente di posti. Ora, è diventato centrale l’aumento dell’aspettativa di vita rispetto all’andata in pensione. Viene misurata ogni tre anni, e l’ultima rilevazione farà scattare, nel 2019, 5 mesi in più.

Tutto nasce dal governo Berlusconi-Maroni nel 2004 con l’introduzione del brusco «scalone» (subito 5 anni in più di anzianità da maturare), poi cancellato da Prodi, cui fa seguito nel 2010 proprio questa invenzione dell’aggancio automatico all’età media, sempre da parte di un governo Berlusconi, applicato l’anno dopo dalla legge Fornero (al netto dello sfondone esodati). Si tratta quanto meno di un dato oggettivo, non individuato dalla politica, ma dall’Istat. Naturalmente con le medie c’è sempre da ricordare il pollo di Trilussa, e occorrerà probabilmente scendere più nel dettaglio, categoria per categoria, e comunque occorrerà prima o poi un tetto massimo. Dire 67 anni può far impressione, ma oggi l’età media dell’andata in pensione è 61,9 (in Germania 62,2) e la modifica che riguarda il 2019 è stata annunciata otto anni prima di entrare in atto. Bloccare questo meccanismo è tuttavia nelle richieste delle opposizioni: la Lega sposterebbe tutto di un anno, i 5 Stelle, addirittura al 2022. Il Governo ha invece recepito l’allarme Inps, che parla di un costo immediato di 14 miliardi fino al 2021, e poi a salire fino a 140 miliardi complessivi, ma è la sua maggioranza, sollecitata dall’intera segreteria Pd, che mette in discussione questa meritoria fermezza, raccomandata anche da Banca d’Italia e Corte dei Conti.

In realtà, il gioco è molto sottile, ma anche molto ipocrita. La finalità è elettorale: poter dire sotto elezioni che il meccanismo automatico è stato congelato. Quindi nessun effetto immediato sui conti pubblici (ma anche nessun effetto sui pensionandi). L’unico risultato cercato è quello di far percepire agli interessati che «forse» i 150 giorni in più di lavoro non ci saranno. Peccato che la percezione di scarsa affidabilità arrivi invece diritta agli osservatori internazionali, che vivono non di populismo ma proprio di percezioni, perché la finanza è tutta previsioni, scommesse, attese, fiducie date o negate. Quindi con qualche riflesso su quegli indicatori, spread per primo, che misurano la nostra affidabilità, e costano, anche ai pensionati.

Questo gioco tutto di apparenze - un blocco che non è un blocco - non porterà insomma vantaggi a nessuno. C’è però da registrare che il sindacato – che di pensionati se ne intende: è purtroppo la sua vera base – sta lavorando in questi giorni, nel tavolo con il Governo, soprattutto per sistemare questioni davvero concrete e non di fumo elettorale. La prima è quella dei lavori usuranti, perché i nostri anziani sono in genere gagliardi, ma alcuni lavori sono davvero non adatti ad un ultra sessantenne. Qui può intervenire uno strumento già vigente, l’Ape social, cioè la pensione anticipata. Siamo arrivati ad individuare 15 categorie e speriamo solo che l’eccezione non diventi regola. Un’altra questione è la distinzione tra vecchiaia e anzianità, cioè anni effettivi di lavoro e contribuzione, che potrebbero salire a livelli (inaccettabili) di 43/45 anni. Nelle pieghe di questo innalzamento dell’anzianità lavorativa, si nasconde un coefficiente di calcolo poco visibile, ma perversamente in discesa, che incide sull’ammontare della pensione. Questo si, sarebbe iniquo col passare del tempo.

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