Picconate a Visco
L’azzardo di Renzi

Di sicuro la mozione del Pd contro il rinnovo del mandato del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è profondamente irrituale. Anzi si può dire che la presentazione (e successiva approvazione a larga maggioranza) di un documento del genere da parte del principale partito di governo ha reso più evidente la «novità» di un dibattito parlamentare su questo argomento, dovuto in primo luogo all’iniziativa della Lega e del M5S.

Non si ricordano, a memoria di cronista, dibattiti simili alla vigilia della nomina del governatore (un tempo era a vita, adesso, dopo la riforma Draghi, c’è il limite di due mandati di sei anni ciascuno) che avveniva nel modo più solennemente riservato: il parere del Consiglio superiore della Banca, la delibera del Consiglio dei ministri, la proposta del presidente del Consiglio al capo dello Stato e infine il decreto del Quirinale. Meccanismo complesso, delicato, accuratamente tenuto lontano dai riflettori della politica in una partita che giocava su tre lati della scacchiera: Quirinale, Palazzo Chigi e via Nazionale, dove si trova l’austero Palazzo Koch, sede dell’Istituto.

Le mozioni degli scapigliati leghisti e grillini hanno incrinato i vetri di questa cristalleria, ma la mozione del Pd renziano ha avuto l’effetto di un trattore lanciato a tutta velocità contro la vetrina. Non si fa, insomma. A Renzi lo hanno ripetuto tutti, e col sovracciglio inarcato: Napolitano, Veltroni, Calenda, gli orlandiani, perfino Luigi Zanda, tutti gli hanno rimproverato di avere con una mossa sola colpito con un pugno allo stomaco Visco, irritato Gentiloni, offeso Mattarella, fatto un dispetto nientedimeno che a Draghi, primo sponsor del governatore, sostenitore della sua conferma e soprattutto primo difensore della stabilità dell’Italia.

Niente da fare: il giorno dopo la sua sparata, Renzi non solo non ha fatto un passo indietro ma ha addirittura incrudelito le accuse a via Nazionale, alla sua gestione delle crisi bancarie, alla (mancata?) vigilanza sui casi più gravi, da Mps a Banca Etruria, agli altri istituti caduti nella morsa del famigerato bail-in. «È successo di tutto e loro non si sono accorti di niente», ha scandito di fronte ai giornalisti.

Eccolo dunque di nuovo sulla scena il Rottamatore, il Gianburrasca che solleva i veli delle ipocrisie istituzionali, soffia via la polvere dalle procedure e addirittura si permette di nominare il capo dei vigili del Comune di Firenze alla guida dell’ufficio legislativo di palazzo Chigi tanto per fare uno sberleffo al Consiglio di Stato, tradizionale riserva dei grand commis dello Stato al pari del governatore della Banca d’Italia.

Perché lo ha fatto? Per una ragione eminentemente politica e tattica: additare all’elettorato colui che, non vigilando in tempo sulle malefatte delle banche, non ha impedito che andassero in rovina a causa della mala gestione costringendo il governo a fare manovre dolorose e costose. Banca Etruria e Mps sono i due punti deboli del renzismo, quelli su cui i grillini, Salvini e Renato Brunetta battono il ferro come fabbri, e Renzi deve allontanare da sé quei fantasmi che lo inseguono e lo indeboliscono. Per questa ragione non ha esitato a drammatizzare il rinnovo del mandato del governatore – già deciso! - politicizzandone l’esito e mettendo Gentiloni e Mattarella in un vicolo da cui è veramente difficile uscire senza strappi alla giacca del vestito.

Gioverà a Renzi questa irruenza così rumorosa? Elettoralmente è probabile di sì, visto che spunta una micidiale arma in mano ai suoi nemici. Ma dal punto di vista dello standing istituzionale e internazionale di un ex presidente del Consiglio che punta a tornare in sella, la mossa rischia di somigliare molto ad un azzardo.

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