Porpora e rigore
ma volto familiare

Era una sera d’estate del ’68 quando una Fiat 600 con a bordo una famiglia bergamasca ruggiva sulle strade polverose d’Abruzzo per raggiungere un palazzotto del centro di Chieti. Al volante un papà, al suo fianco una mamma, sui sedili, stipati dietro, tre bambini. Ero uno di questi, avevo 7 anni e tutti assieme andavamo da «monsignore»: Loris Capovilla noi lo abbiamo sempre chiamato così. L’anno prima era stato eletto vescovo e mandato lì da Paolo VI.

Non sapevo che il ’68 fosse l’anno della ribellione studentesca, ma non sapevo nemmeno di trovarmi in un luogo dove le contestazioni erano all’ordine del giorno e tutte dirette a quel vescovo, che ci accoglieva assieme a due suore, la bergamasca Primarosa e la bresciana Nazarita. Quei 4 anni – tanti ne rimase a Chieti – furono di vento e tempesta, una spina nel fianco di monsignore. Fino a indurlo a voler fare un passo indietro. Il «Borghese» lo accusava di occuparsi «non del problema dell’ateismo, ma di quello dei contadini abruzzesi sfruttati, lanciandosi sulle orme dei vescovi sudamericani, trasformando la sua Diocesi in centro di progressismo nazionale».

Ero troppo giovane per capire tutto questo. Sapevo solo che lui era il segretario particolare di Papa Giovanni, mio prozio, oggi Santo, volto familiare tanto da ritrovarlo ovunque: su un quadretto della cucina o nella calamita apposta sul cruscotto di un’utilitaria. Ero troppo piccolo per sapere di trovarmi di fronte a un prete che aveva da poco passato il mezzo secolo, ma che era stato spettatore o co-protagonista di eventi e incontri con personaggi di livello planetario in Vaticano. John Kennedy, Nikita Krusciov, Fidel Castro sono nomi che avrei conosciuto a scuola, ma che erano già entrati nella Storia di quel vescovo.

Capovilla era già diventato un «Roncalli acquisito» ai tempi di Giovanni XXIII. È sempre stato trait d’union, anello di congiunzione, tra i familiari e il Pontefice. Così quando decise di stabilirsi a Sotto il Monte, dopo la parentesi al santuario di Loreto e un breve periodo nella campagna di Arre, suo luogo natìo in quel di Padova, la sua figura è entrata a pieno titolo nel nucleo roncalliano. Ed è qui che ha continuato la sua missione di pastore. Era chiamato ovunque per amministrare i sacramenti. Non solo il matrimonio dei pronipoti del Papa, i funerali dei nipoti, i battesimi dei roncallini dell’ultima generazione, ma anche le comunioni e le cresime nelle parrocchie di minuscoli paesi, delle alti valli orobiche fino a quelli della spianata bergamasca.

Gli piaceva la Valle Imagna, la culla dei Roncalli con la Grotta della Cornabusa; gli piaceva San Pellegrino che pure gli ricordava quel periodo in cui il suo cuore andò un po’ in tilt e il cardiologo Flavio Burgarella (col quale si appassionò a disquisire di Fra Tommaso da Olera come protettore dei cardiopatici) lo convinse a stare un po’ alla Clinica Quarenghi; gli piaceva Clusone dove intrecciò numerose amicizie; gli piaceva la quiete di Baccanello dove faceva visita ai fraticelli. Era cittadino onorario di Sotto il Monte e di tantissime città. Il suo buen retiro a Camaitino negli anni è diventato crocevia di teologi, vescovi, intellettuali e gente comune, ma anche una sorta di fucina di idee, laboratorio di documenti e scritti poi trasmessi alla Fondazione Giovanni XXIII. Restìo a dare dichiarazioni ai quotidiani, nonostante fosse giornalista, il suo primo e unico libro-intervista lo concesse solo nel ’94 a Marco Roncalli, saggista, che lo ha affiancato per decenni negli studi giovannei, in convegni e seminari. La quotidianità del porporato, negli ultimi anni, era timbrata da una routine scandita da precisione svizzera. I suoi angeli custodi sono state le suore delle Poverelle, cui ha consegnato per sempre la conservazione dei cimeli e delle memorie donati al Papa, ora al museo di Camaitino, la prima casa dei Roncalli. Ma l’eredità di Capovilla è molto più grande. La berretta cardinalizia, le telefonate di Papa Francesco, l’amicizia con don Spada, i riconoscimenti ricevuti da tutto il mondo, lo hanno ripagato anche delle amarezze. Ha chiuso la sua vita in modo sereno, lasciandosi dietro anche quei «sassi» che taluni gli avevano lanciato. Ma che il suo Papa gli aveva insegnato a non fermarsi a raccogliere.

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