Province, la riforma
a Bergamo costa cara

Fosse un’azienda, il solo sospetto che possano andare perduti o resi precari centinaia di posti di lavoro (forse fino a 20 mila a livello nazionale), avrebbe già creato mobilitazioni e proteste. Trattandosi della Provincia, tutto è più soft, nella speranza che la gran palude della pubblica amministrazione alla fine assorba tutto. Ma l’impressione è che questa approssimativa riforma lasci il cerino acceso in mano ai dipendenti delle amministrazioni, e se ne avverte l’ingiustizia.

Si era fatto in fretta a dire che dovevano passare a Comuni e Regioni insieme alle relative competenze, ma non solo i Comuni poveri di risorse ma le stesse Regioni ricche hanno già fatto sapere che le competenze non le vogliono e che posti di lavoro ce ne sono pochi. Qualche spazio sembra esistere solo nelle nuove Città metropolitane, peraltro ferme all’assemblea di insediamento, ma il gioco allucinante del «fatti più in là» è già diventato aspro, ora che la Legge di stabilità ha ridotto del 50% gli organici provinciali e chiesto ancora un miliardo di tagli. L’ultima ipotesi è che gli esuberi saranno dirottati sui Tribunali, ma anche questo è uno sfregio ad un corpo professionale che ha una sua specificità e preparazione. Non potendo fare i giudici, cosa potranno diventare i funzionari dell’ambiente, del territorio, dell’urbanistica? Cancellieri e uscieri? Uno spreco umano e intellettuale.

Questo è solo il primo dei nodi lasciati irrisolti dalla legge di riforma delle Province, che ora vivono in un limbo, in attesa di segnali che vengano da chi le ha «cancellate» perché definite inutili, ha incassato i dividendi elettorali dell’antipolitica, ed è passato oltre. Il vero torto di questi che sono i più antichi enti di rappresentanza territoriale, è stato di comunicazione, non facendo ben sapere che accanto a compiti primari (strade, scuole, ambiente), negli anni sono stati caricati sempre più di competenze e di deleghe. Si è arrivati a contarne circa 200, sempre ad insaputa dei cittadini. In una provincia come quella di Bergamo, con pezzi di montagna pregiati ma isolati, aree industriali con lo sguardo al mondo, pianure poco propense a legarsi al capoluogo, infrastrutture che conducono lontano, ci voleva un comun denominatore per quel milione e più di cittadini targati Bg.

Ma dopo aver sepolto, peraltro senza rimpianti, la mistica del federalismo, si è disinvoltamente passati all’estremo opposto. Così a Bergamo si è risparmiato qualche spicciolo e lasciato un territorio inerme di fronte all’ordinaria amministrazione e addirittura allo sbando in caso, Dio non voglia, di alluvioni o anche semplicemente di 10 centimetri di neve. Quello che stanno facendo i presidenti – a Bergamo, Matteo Rossi – è ammirevole, insieme a quei pochi collaboratori del livello politico che gli danno una mano, e ai cosiddetti burocrati che consentono che esista ancora un bilancio (lo gestisce volontaristicamente Franco Cornolti) e un presidio su viabilità, trasporti, urbanistica. Ma dipende dall’incerto pagamento arretrato dell’affitto della Prefettura, morosa come un qualunque inquilino, se si riuscirà a mettere in moto il puzzle dei finanziamenti della variante di Zogno o quel poco di assistenza sociale ancora possibile.

Il tema, insomma, meriterebbe più attenzione, anche nella riforma costituzionale che si sta esaminando in Parlamento, e che in teoria dovrebbe occuparsi anche di ridimensionamento delle Regioni (fino a 5 in tutto, da 15), ma la lobby regionale non è di burro come quella delle Province, e il rischio vero è che alla fine tutti i buoni propositi, e migliaia di posti di lavoro, vengano spazzati via da un voto di fiducia. Almeno per Bergamo lasciare a casa 10 politici su 27 e togliere rappresentanza a mezzo territorio non è stato davvero un grande affare.

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