Il Nord scomparso
Ma non i problemi

Il Nord è scomparso dal dibattito pubblico: semplicemente non se ne parla più. Anche Renzi, settimana scorsa a Bergamo, quella parola magica non l’ha mai pronunciata. La questione settentrionale, specie nella sua versione nordista popolar-popolana, serbatoio di rancore e di orgogliosa autoaffermazione, il marchio di fabbrica della Lega di Bossi e poi del forzaleghismo della Seconda Repubblica, è stata archiviata senza annunci, senza un consuntivo finale.

Molto dipende, come si sa, dal cambio di strategia alla Le Pen della Lega di Salvini, forse nella consapevolezza che quel ciclo si stava esaurendo per via naturale: si era raschiato il barile e probabilmente non si poteva chiedere di più. Gli anni ruggenti della secessione leggera del Nordest, un misto di individualismo, volontà di concretezza, diffidenza verso i vincoli legislativi, ostilità nei confronti di ciò che era pubblico e statale.

Una triangolazione sentimentale proposta come autosufficiente: il badare a se stessi, «Roma ladrona», più società meno Stato. Una forza difensiva ma reale, quella del Nord, che ha creato un rituale di comportamenti ribelli all’insegna di un primato territoriale, la cui solidità è stata messa in dubbio dalla lunga crisi. Le stesse mitiche partite Iva del capitalismo diffuso e molecolare, cioè tante individualità riunite frettolosamente in un solo popolo, hanno pagato duramente i costi della recessione: quella che era l’avanguardia, l’ala marciante di un nuovo sviluppo e di un modo combattivo di vedere le relazioni fra periferia e centro, sembra in ripiegamento. Oggi il quadro è cambiato e i blocchi sociali degli anni ’90 sono collocati in un contesto superato: i protagonisti sono altri.

L’attualità imposta dalla «distruzione creatrice» generata dalla crisi ha operato una selezione fra imprese vincenti e perdenti: il modello industriale del «quarto capitalismo» è sorretto dalle multinazionali tascabili che hanno successo sui mercati internazionali. È al lavoro, come scrive il sociologo Mauro Magatti, una nuova borghesia produttiva che potrebbe risultare decisiva nel trainare il Paese fuori dal declino, per quanto non sia ancora consapevole del proprio ruolo. Pure la mistica del territorio, già discutibile ieri nella piccola patria di un localismo provinciale, è fuori fase rispetto alle logiche dei centri di potere che non hanno più confini come l’Europa delle istituzioni, per non parlare dei mercati finanziari. Si smontano i fondamentali di una stagione inquieta e lo si vede anche con la riforma costituzionale che, oltre al nuovo Senato, rivede la distribuzione delle funzioni fra Stato e Regioni a vantaggio di Roma.

Il messaggio politico è che il centro, dopo la non esaltante riforma del 2001, si riprende alcuni poteri normativi, mentre il segnale culturale è che l’universo reale e simbolico che s’era insediato nel Nord (autonomia, regionalismo, piccoli contro grandi nell’illusione di farcela da soli) appare in contrasto rispetto ai nuovi orientamenti collettivi: la rincorsa anarcoide dell’individualismo paga i suoi limiti, lasciando spazio a nuovi legami sociali, all’idea che se ne esce tutti insieme.

Lo stesso Nord, come ha scritto lo storico Giuseppe Berta, smarrendo la propria illusoria diversità, s’è reso omogeneo al resto d’Italia: «La società settentrionale ha perso il proprio carattere più esemplare, cioè l’essere il motore dello sviluppo del Paese». Davanti a noi c’è una prospettiva aperta che va studiata: quel tipo di Nord è orfano di una precisa rappresentanza politica, eppure il malessere rimane sotto pelle e i problemi irrisolti sono quelli di sempre.

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