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Il governo ci scuserà se accogliamo senza entusiasmo e senza l’hashtag #buonenotizie, come ha fatto in un tweet il premier Gentiloni, gli ultimi dati sull’occupazione in Italia. L’Istat ci informa che da maggio e giugno il tasso di disoccupazione è passato dall’11,3 all’11,1 per cento, segnando una diminuzione dello 0,2 per cento. In un Paese stremato da una crisi che si trascina dal 2008, con tre milioni di disoccupati ufficiali e almeno altri tre nascosti dalle statistiche ufficiali (gli inattivi, gli scoraggiati, tutti coloro che il lavoro hanno smesso di cercarlo), possiamo ben dire che due decimali, come le rondini, non fanno primavera.

Oltretutto il rialzo dei 23 mila posti in più si spiega solo con l’aumento dei contratti a termine, probabilmente per via dell’inizio della stagione turistica, uno dei pochi settori, insieme con l’export e l’alimentare, che in Italia va davvero bene, forse più per le contingenze del momento che per capacità di innovazione imprenditoriale (milioni di turisti stranieri, soprattutto francesi, olandesi e tedeschi, quest’anno fanno rotta su Italia e Spagna e abbandonano il Medio e il Vicino Oriente per via della paura del terrorismo e degli altri disagi politici e sociali).

Questo genere di dati dovrebbe servire a inoculare tra gli italiani un po’ di ottimismo, ma sono troppi anni che andiamo avanti a colpi di decimali. In Italia il lavoro non c’è. È la dura realtà quotidiana in cui sono scivolati milioni di concittadini. Servirebbe un grande progetto lavoro non molto diverso da quel New Deal o quel Piano Marshall che rimise in piedi l’America e l’Europa in anni altrettanto difficili. All’orizzonte non si vede nulla di simile e si va avanti navigando a vista a parte il sofisticato piano Industria 4.0.

Secondo i dati congiunturali anche la disoccupazione giovanile è diminuita dell’1, 1 per cento, ma anche questo dato non risolve certo la principale piaga italiana, che vede il 35,4 per cento dei giovani tra i 15 e i 24 anni senza lavoro (ma al Sud la disoccupazione giovanile tocca punte del 70 per cento).

E infatti le famiglie non percepiscono miglioramenti: i figli continuano a non trovare un posto stabile, emigrano all’estero in cerca di un’occupazione dignitosa e non precaria, si vedono erodere continuamente il proprio reddito (l’Italia ha i più bassi salari d’Europa), scivolano inesorabilmente nella povertà quando il capofamiglia perde il lavoro.

Leggere sul giornale i titoli rutilanti che annunciano che in Italia cala la disoccupazione è quasi una provocazione, se non una presa in giro per tanti nuclei familiari.

Vi è poi l’altra apparente buona notizia legata ai dati Istat diffusi ieri: il tasso di occupazione delle donne ha raggiunto il 48,8 per cento, il più alto di sempre (cioè dal 1977, quando sono state introdotte le serie storiche). Anche qui sarebbe il caso di non farci troppe illusioni: c’è ancora molta strada da fare sul piano dell’emancipazione lavorativa della donna e dei suoi sacrosanti diritti.

La media europea secondo l’Eurostat infatti è del 61,6 per cento e la nostra media impallidisce se la confrontiamo alla Svezia (74,6), alla Norvegia (71,9) e alla Germania (71,0). Dietro di noi, al solito, c’è solo la povera Grecia. Dovremmo riflettere molto di più sul fatto che gli ispettori del lavoro hanno riscontrato 30 mila dimissioni per maternità ( e forse anche in questo caso è la punta dell’iceberg) e che nel nostro Paese ci sono solo 22,5 posti su 100 negli asili nido, contro l’obiettivo di 30 indicato dall’Unione europea.

Dunque non illudiamoci: la verità è che finito l’effetto degli sgravi contributivi introdotti nel 2015 i posti di lavoro a tempo indeterminato sono ritornati ai livelli antecedenti. Il governo sta studiando la reintroduzione della misura: speriamo che non si torni indietro. Sul lavoro servirebbe una scossa per ripartire: quante volte l’abbiamo detto?

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