Renzi ritrova
il potere perduto

Matteo Renzi torna anche formalmente alla guida del partito democratico. E, in qualche misura, anche del governo. La schiacciante maggioranza ricevuta dal voto delle primarie sia nei circoli che nei gazebo degli elettori, restituisce all’ex premier lo stesso potere che aveva prima della sconfitta referendaria e delle dimissioni dal governo. Un potere che solo molto parzialmente è stato intaccato dalla scissione di D’Alema e Bersani il cui partito oggi, secondo i sondaggi, varrebbe un modesto due per cento elettorale e comunque non riesce più a fare notizia neanche quando vota contro i provvedimenti di maggioranza (vedi legittima difesa).

Renzi ora non dovrà più fronteggiare la minaccia di un gruppo interno che non lo riconosce come leader, e ha di fronte due correnti di opposizione, di Orlando e di Emiliano, molto deboli e largamente minoritarie nel partito, tant’è vero che non sono nemmeno state coinvolte nel gruppo di vertice del Pd.

Dunque, questo non sarà «il partito di Renzi» ma di sicuro è un partito su cui la presa renziana è fortissima e chi la contrasta è ai margini. Messosi questo sgabello sotto i piedi, Renzi può allungarsi verso il governo e rivendicarne il patronato: per Paolo Gentiloni non c’è nessun avviso di sfratto imminente ma c’è un energico invito a riconoscere chi decide quale è la strada da prendere: da questo punto di vista la decisione di fare una riunione settimanale tra governo e partito fa il paio con la circolare con cui la sottosegretaria a Palazzo Chigi Maria Elena Boschi ricorda che dal suo tavolo, prima di approdare in Consiglio, devono passare tutte le decisioni più importanti dei ministri. Che, una volta fatte le primarie, questo sarebbe stato l’atteggiamento di Renzi verso il governo si era già capito sia quando ha imposto a Padoan e a Calenda una correzione di linea sull’Alitalia, sia quando ha ordinato di rivedere in Senato la legge sulla legittima difesa togliendo di mezzo quel riferimento alla «notte» che tanto ha fatto discutere. Non risulta che Paolo Gentiloni abbia fatto resistenza a questa linea del suo leader di partito e di corrente.

Se questa è la «presa» che il ri-segretario intende avere sul Pd e sul governo, meno definita è invece la tattica che Renzi avrà con gli altri partiti sulla legge elettorale. Dicono che non abbia più tanta voglia di correre al voto, se non altro perché i sondaggi danno un Pd in ripresa – avrebbe riconquistato, sia pure per un soffio, il posto di primo partito – e un M5S in difficoltà dopo il «caso Genova», la paralisi amministrativa della giunta Raggi, le polemiche sui «taxi» del Mediterraneo e la contraddittoria posizione sui vaccini. Il Pd potrebbe anche concedersi il lusso di aspettare la fine naturale della legislatura, sempre sperando naturalmente che i conti pubblici non creino troppi problemi di consenso al partito di governo.

Ma è sulla legge elettorale che Renzi in questo momento non sembra voler scegliere e anzi quasi si defili dalla partita: «Le nostre proposte le abbiamo fatte, adesso le faccia chi ha portato l’Italia nella palude col no al referendum». È una sfida che viene lanciata sia a Grillo che a Berlusconi ma senza scegliere l’uno o l’altro interlocutore, e anzi quasi rinunciando ad un ruolo trainante nel dibattito parlamentare, avvertendo che il Pd «non ne sarà il capro espiatorio», come dire: non farete una legge contro di noi. È un messaggio che viene lanciato anche verso il Quirinale, forse sperando in un (improbabile) ruolo di mediazione del Capo dello Stato il quale, come è noto, si chiama Mattarella e non Napolitano.

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