Repubblica dei Tar
L’effetto paralisi

La sentenza con la quale il Tar del Lazio ha annullato la nomina di cinque direttori di importanti musei italiani non poteva non fare rumore. Le scelte del ministro per i Beni culturali si erano dimostrate, per quasi unanime giudizio degli esperti, molto azzeccate, perché erano state operate in base a rigorosi criteri di merito. A dare ragione al ministro sono stati soprattutto i fatti: i musei funzionano molto meglio, hanno avuto un’impennata di visitatori e si è di molto elevato il gradimento da parte dei cittadini. Tutti argomenti che, in qualunque Paese, avrebbero costituito una corazza inattaccabile.

Non in Italia dove la nomina di un direttore «straniero» può essere considerata un elemento improprio, non conforme alla legge, un fattore che permette a chi non è stato scelto di ricorrere e vincere in giudizio. Un’assurdità civile prima ancora che giuridica. Prudentemente – come è nel suo stile – Franceschini ha replicato che le sentenze si rispettano e che sul merito «non ci sono parole».

La sentenza è, in effetti, tanto paradossale da lasciare senza parole. Di fatto, da oggi cinque musei sono senza direttore. Proprio ciò che serve a un Paese che sui beni culturali dovrebbe prosperare, far lievitare il turismo, e basare la sua attrattività.

I Tribunali amministrativi regionali sono nati nel 1971 con l’obiettivo di semplificare l’andamento e accorciare i tempi della giustizia amministrativa, affidata fino ad allora al Consiglio di Stato. Oltre mezzo secolo di attività dei Tar ha mostrato quanto fosse illusoria (e forse anche velleitaria) l’idea che diffondere sul territorio quei tribunali servisse a rendere meglio giustizia ai cittadini: il raddoppio non lo ha reso né più rapido, né più agevole il giudizio. Se il Tar decide in un senso, la parte che soccombe ricorre al Consiglio di Stato. Altro giudizio, altro tempo che passa: i ritardi dell’amministrazione si devono in misura rilevante a un sistema macchinoso che gratifica i professionisti del cavillo e mortifica chi cerca di operare pensando alla qualità delle scelte compiute o da compiere. Se la timidezza decisionale dei funzionari pubblici può essere addebitata al timore di incappare nella tagliola dei Tar, essi – per converso – diventano l’arma più usata fuori delle mura dell’amministrazione. Giganteggia nella società italiana il ricorso al ricorso. Sono diventate una rarità le decisioni amministrative (o politico/amministrative come nel caso delle scelte del ministro Franceschini) che non vengono colpite dal ricorso al Tar. Meglio Tar che mai, sembra essere la parola d’ordine che guida la mano di tutti coloro che non vincono un concorso, che risultano secondi in un bando di gara, che non vengono prescelti per la promozione a dirigente o semplicemente a capufficio. Le ragioni di tale andazzo sono molteplici e risalgono a costumi antichi, ereditati da ordinamenti nei quali il formalismo ha finito quasi sempre per avere la meglio sul merito (come dicono i magistrati), sulla sostanza, come più semplicemente si usa dire fuori dalle aule giudiziarie.

Larga parte delle pronunce dei Tar è basata sul «vizio di forma». Molto spesso esso annulla o sospende un provvedimento amministrativo per inesattezze formali. Il Tar ha il vizio della ricerca ossessiva del vizio: la storia della giurisprudenza italiana è piena di sentenze con le quali sono state affossate decisioni talvolta di estrema importanza per l’azione di governo (di governo, non del Governo). L’effetto paralisi è noto. Negli studi universitari di giurisprudenza esso è parte importante dei programmi di diritto amministrativo. Occorre conoscere bene queste sconcertanti modalità di funzionamento della giustizia, altrimenti si viene bocciati all’esame.

È ben vero che le sentenze dei Tar sono frutto a volte di leggi astruse, ma da sapienti giuristi ci si aspetterebbero giudizi basati su valutazioni giuste non soltanto astrattamente, bensì nella sostanza. Invece, esse spesso contraddicono il buon senso. Prendendo a prestito il titolo di un celeberrimo film, si potrebbe concludere che – nei rapporti con le istituzioni - siamo un popolo di Tar-tassati. Non è una novità dirlo, è però quasi doloroso constatare che la situazione, invece di alleviarsi, si aggrava. Non è improprio dire che l’Italia si avvia a diventare la Repubblica dei Tar. Chi concorre è bravo, chi ricorre lo è ancora di più.

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