Resistere ad oltranza
La trincea della Raggi

ai giudici che quasi certamente la porteranno a processo per falso e abuso d’ufficio. Aggiunge che «Beppe le ha detto di andare avanti» e che dunque lei si atterrà alle regole del suo movimento, soprattutto a quelle di recente conio che prevedono le dimissioni di un eletto solo in caso di condanna in primo grado, e comunque sulla base di una votazione on line dei militanti. Ciò vuol dire che, se condannata, Virginia Raggi resterà seduta sulla poltrona più scomoda di Roma fino a quando Grillo e Casaleggio riterranno utile la sua presenza. O meglio: fino a quando non giudicheranno troppo dannosa la sua permanenza in Campidoglio.

Un po’ come accadde ai tempi di Ignazio Marino, quando il Pd di Renzi, di fronte al disastroso bilancio del «sindaco marziano» e alle proteste della cittadinanza preferì affondare la giunta capitolina prima che il malcontento diventasse troppo pericoloso per le sorti elettorali del partito. Era troppo tardi, come poi si capì, e forse Grillo e Casaleggio dovrebbero riflettere proprio su quella vicenda per decidere quale sia la soluzione migliore per i loro interessi. Quanto pesa la Raggi sui destini e sulle ambizioni di governo del movimento?

La vittoria di Roma e Torino – Roma, soprattutto – alle amministrative dell’anno scorso doveva diventare per il M5S il trampolino di lancio per conquistare la vetta di Palazzo Chigi. La buona e onesta amministrazione da parte di un giovane classe dirigente poco esperta ma «fresca» e lontana dalle camarille della destra e della sinistra doveva costituire la prova provata che il nuovo era finalmente arrivato e che aveva le Cinque Stelle per simbolo. Tradotto: come si rivoluziona il governo di Roma e di Torino, così si può cambiare il governo della Nazione: aprendolo come una scatoletta di tonno, tanto per usare uno degli slogan più in voga nel blog grillino.

Ad un anno di distanza il bilancio di una simile prova è però così negativo che ben sette romani su dieci dichiarano di bocciare la sindaca e la sua giunta. E ne hanno ben donde: Roma affonda nel degrado, nella sporcizia e nell’impoverimento mentre in Campidoglio un po’ si annaspa e un po’ ci si fa la guerra tra correnti, gruppi di potere, cordate familiari come dimostrano le inchieste che hanno portato in carcere il principale collaboratore della Raggi e di cui lei stessa dovrà rispondere in tribunale. Senza contare il balletto di dimissioni e sostituzioni di assessori, alti dirigenti e consulenti che poi tanto nuovi non erano anzi, anzi in più casi provenivano proprio da quel «vecchio mondo» che i Cinque Stelle giuravano di voler cancellare. Quanto a Torino è bastato il disastro di piazza San Carlo nella notte della Champions League per spazzare via il mito di una Appendino «diversa dalla Raggi».

Di questa imbarazzante situazione i primi ad essere consapevoli sono i capi del Movimento, a partire da Grillo e Casaleggio e da Di Maio che della Raggi è un po’ il nume tutelare, colui che l’ha difesa, finora, dagli attacchi esterni e soprattutto interni. Alla fine hanno deciso che bisogna resistere fino a che è possibile e che la strada delle dimissioni andrà presa solo in casi estremi. Cioè solo nel caso in cui il «caso Roma» fosse in grado di affondare le fortune elettorali dell’intero M5S dimostrando l’inadeguatezza dei grillini ad affrontare la prova dell’amministrazione e del governo.

A questo proposito non è da sottovalutare, come segnale, l’estromissione dei grillini da tutti i principali ballottaggi del test amministrativo di queste settimane, tornato ad essere una gara tra centrodestra e centrosinistra.

© RIPRODUZIONE RISERVATA