Ribaltare lo sguardo
sui giovani e internet

In occasione della cerimonia di fine studi di un college americano nel 2005, David Foster Wallace, uno dei più grandi scrittori della nostra epoca, tenne uno straordinario discorso, che poi pubblicò con questo titolo: «Questa è l’acqua». In sintesi, voleva raccomandare ai ragazzi, già tentati da una sfiducia verso gli altri e da uno scetticismo verso la realtà, di ribaltare lo sguardo. Di persuadersi che questo è il tempo e il mondo che ci è dato (cioè l’acqua in cui nuotare), e che vivere bene questo tempo e questo mondo è il modo più efficace per essere tutti migliori.

E per rendere anche migliori questo tempo e questo mondo. Avesse dovuto pronunciarlo oggi quel discorso Foster Wallace tra gli esempi fatti avrebbe certamente incluso qualcosa che riguardava quegli strumenti che sono diventati una sorta di appendice nella vita dei ragazzi. Gli smartphone possono essere visti come porte aperte su tutte le piccole e grandi patologie nel nostro tempo: il narcisismo dei selfie, la violenza del cyberbullismo, i rischi per i ragazzi di venire adescati, una distrazione allo studio, l’azzardo online. Ma, avrebbe ribattuto Foster Wallace con l’andamento fascinoso e così umano del suo ragionare, forse uno smartphone può anche servire per consolare un amico in un momento di disperazione, che può essere utile per risolvere cooperativamente un problema, può far partire un messaggio via whatsapp che racchiude una piccola, imprevista nota poetica.

Una ricerca resa nota ieri dall’Agenzia di tutela della salute di Bergamo conferma con i numeri un dato che tutti noi abbiamo sotto gli occhi: il 98% degli adolescenti bergamaschi tra i 15 e i 19 anni si connette regolarmente a internet. Sempre nel nostro territorio, da interviste realizzate dai medici pediatri a oltre 3 mila bambini, risulta che il 97% di loro ha dispositivi con cui può accedere alla rete. Le uniche limitazioni riguardano gli orari, imposti dai genitori nel 60% dei casi. Se poi aggiungiamo che probabilmente a Bergamo funziona come altrove e che quindi i ragazzi passano in media sette ore della giornata con lo smartphone in mano e che tra le principali ansie c’è quella di trovarsi con il dispositivo scarico (una sindrome ribattezzata “nomofobia”, “no mobile fobia”), possiamo avere l’impressione che la vita dei nostri figli venga quotidianamente inghiottita da un ciclone virtuale.

È una situazione davanti alla quale il mondo adulto è preso come da una paralisi: una ricerca di un anno fa svelava che il 58% dei genitori non dà alcun tipo di regole ai figli sull’utilizzo dei cellulari. Si potrebbe parlare di una generazione di padri che rinuncia alle proprie responsabilità, ma in molti casi potrebbe essere un giudizio ingeneroso. E, d’altra parte, non è dimostrato che chi impone regole ottenga risultati molto diversi.

Il mondo virtuale è un po’ come l’aria che si respira: difficile ingabbiarla o irreggimentarla. Forse converrebbe, sulla scia di Foster Wallace, provare a convincerci che lo smartphone nelle mani di un ragazzo è anche (e forse soprattutto) un’opportunità. Che come tutte le opportunità della vita contempla anche il rischio della libertà: si può usarla bene e anche male.

Una ricerca volante su internet può portare su territori pericolosi, ma può anche aiutare a capire il senso di una parola di cui sfugge il significato. Può svelare il titolo di una canzone che colpisce. Può essere uno strumento di conoscenza senza pari. Dobbiamo uscire dall’idea che tutto ciò che concerne l’incontenibile e incontrollabile mondo di internet alla fine porti per forza ad una deriva. D’altra parte è inutile combattere contro l’aria. Meglio pensare che quest’aria, che è il digitale che ci circonda, per i nostri ragazzi sia una irrinunciabile ricchezza. Meglio allinearsi all’idea, sostenuta da un personaggio molto autorevole e molto popolare, che «Internet è un dono di Dio...» (Papa Francesco dixit).

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