Riforma pensioni
pensando ai giovani

C’è un problema molto serio di riforma pensionistica, eluso da una legge di bilancio abbastanza di routine, piatta e senza slanci particolari, però oggettivamente non elettorale, annunciata la scorsa settimana dal governo. I sindacati hanno posto la questione di sganciare le pensioni dall’aspettativa di vita, ma Gentiloni ha chiarito che non vi sono risorse per interventi strutturali, se mai solo «puntuali». C’è infatti solo una generica disponibilità ad agevolazioni riguardanti le lavoratrici e i lavori usuranti, e l’unico accenno importante riguarda l’eventuale blocco massimo a quota 41 dell’andata in pensione di queste categorie.

Ma la vera questione politica non è risolta, anzi in questo momento è evitata, e riguarda appunto il ritardo della pensione basato sulle tabelle dell’età della popolazione italiana, meno male in continua crescita. Il prossimo aumento è di 5 mesi, e scatterà dal 2019. Sotto elezioni, è però già stato evocato il mostro, la legge Fornero, votata da tutti tranne che dalla Lega quando nel 2011 la casa bruciava e non si sapeva se il Paese poteva rinnovare il debito, e stipendi e pensioni erano addirittura a rischio, altro che riforma. Una legge che ha colpevolmente lasciato il buco degli esodati, coperto poi con numerosi interventi successivi, che però nessuno ha più toccato.

Bisognerebbe però ricordare che l’aggancio all’aspettativa di vita risale non alla Fornero ma al 2006, governo Berlusconi-Lega, e già Maroni ministro aveva, due anni prima, introdotto il famoso «scalone» che di un colpo innalzava di 5 anni la pensione di anzianità. Avrebbe in verità risolto proprio i problemi poi affrontati nel 2011 dalla Fornero, se non fosse arrivato il secondo governo Prodi ad abolirlo, con non poche critiche.

Ciò detto, sganciare la pensione dall’aspettativa di vita, secondo Boeri Inps, costerebbe 14 miliardi fino al 2021, e poi a salire. Impensabile intervenire su questo fronte, mentre se mai il problema su cui i sindacati hanno più ragione, è quello dell’aggancio con l’anzianità contributiva, che salirebbe oggettivamente troppo, a 43/45 anni, e che oltretutto trascina con sé l’evoluzione del coefficiente di calcolo contributi versati/ammontare pensione, che tende a penalizzare i nuovi pensionati.

Questo secondo aggancio sembra costare circa 5 miliardi, ma non è probabilmente un governo a fine corsa, che sta invertendo simbolicamente la tendenza a crescere del debito, che può legiferare in materia. E difendere una politica anti debito è un merito. In altri tempi, sotto elezioni, promettere 5 o 14 miliardi sarebbe stata una bella tentazione.

Ma la battaglia politica e sindacale non farà sconti. Assisteremo sicuramente a grandi strumentalizzazioni e sanguinosi scavalcamenti. Sarebbe però utile, prima di stracciarsi le vesti, guardare ai numeri.

Oggi, i pensionati sono circa 16,5 milioni. Di questi, 8,6 sono a carico totale o parziale della fiscalità, cioè delle nostre tasse. Altri 4,7 milioni beneficiano di integrazioni al minimo e maggiorazioni sociali. Altri 825 mila sono pensionati sociali. Non si può dire che il nostro modello di welfare sia egoistico (chiedere agli americani). Su 801 miliardi di spesa pubblica, 392 sono spesa sociale, di cui 242 per le pensioni. A spanne, dopo i versamenti, circa 100 miliardi vengono dalla fiscalità, cioè coperti dallo Stato.

Tedeschi, francesi e inglesi coprono le differenze con le polizze private, ma per esempio i tedeschi versano il 20% dello stipendio per contributi previdenziali, divisi esattamente tra azienda e lavoratore. Da noi, l’azienda versa il 32% del 43 totale.

Certo che il futuro non potrà essere uguale al passato, visto che l’Inps paga mediamente il 73% della retribuzione precedente, mentre la Germania garantisce il 46,2 e la Francia il 55,4.

Con le varie riforme e con la fatale introduzione del metodo contributivo, nessuno ha però toccato il pregresso, cosa che sarebbe non soltanto anticostituzionale ma disumana, tagliando risorse a chi non può più compensare col lavoro o con le assicurazioni private, mentre gli altri sono stati preavvertiti, e hanno comunque salvaguardato gli anni di precedente regime.

Parlare oggi di andare in pensione a 67 anni dal 2019 può sembrare vessatorio e dà certo fastidio restare al lavoro qualche mese in più, ma l’età effettiva dei pensionati al 2016 è stata di 61 anni 9 mesi, con una crescita dal 2009 di sette mesi. In Germania l’età effettiva è 62,1, in Spagna 63, nel Regno Unito 63,7, in Irlanda 64,6. Solo in Francia è inferiore a noi: 60 anni. Giudichi ciascuno se la questione è insopportabilmente diversa per noi italiani della Fornero, fatti salvi i lavori usuranti, su cui se mai concentrarsi.

Far tante polemiche spaventa i pensionati attuali, salvo improbabili retroattività. Il tema tocca da vicino, ma stiamo parlando di mesi, quelli che sono più prossimi al pensionamento, che effettivamente pagano e riceveranno qualcosa di diverso da chi li ha preceduti di poco.

La riflessione maggiore la dovrebbero fare però i giovani, e le leggi di bilancio dovrebbero guardare soprattutto a loro, facilitando la previdenza integrativa, ma i partiti sanno che siamo in un Paese di elettori anziani.

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