Riportiamo a casa
quel genio di Manzù

Dicono che quel giorno, il giorno dell’inaugurazione, sentendo spirare dal mare una brezza rinfrescante molti pensarono che quel soffio avesse in sé qualcosa di divino, come sempre accade per le cose dell’arte. Onorevoli, cittadini, attori, erano in tanti e diversi al museo Manzù di Ardea, nell’agro romano. Per anni l’artista bergamasco aveva manifestato il proposito di fare un formidabile dono allo Stato: 440 opere, tra le quali 116 sculture (compresi alcuni dei gioielli che dimostrano quale straordinario orafo fosse Manzù), 224 disegni, 102 incisioni.

Nata nel 1966, la raccolta fu inaugurata nel 1969, donata allo Stato nel 1979 e aperta al pubblico nel 1981. Manzù e l’associazione che porta il suo nome vollero consegnare il dono al ministero dei Beni culturali specificando che la destinazione di quel patrimonio era la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea. Perché in quella palazzina, tra i pini marittimi della pianura pontina, non lontana dalla villa dove egli viveva e dalla fonderia dove le sue sculture prendevano vita, l’opera dell’artista doveva testimoniare la capacità dell’arte di essere popolare. Le parole dello scultore: «Donare queste opere alla comunità è stato come donarle a me stesso: gli altri hanno diritto di vederle almeno quanto me».

Molto, moltissimo di Manzù si trova ad Ardea, ma Bergamo non riesce a sentirsi distante dal suo artista. Per questo le ultime notizie destano preoccupazione. L’Eco è andato a visitare il museo romano, e non è stato un bel vedere. La cura degli spazi e l’orario di apertura al pubblico (solo venerdì e sabato) non sembrano all’altezza dei capolavori che ospita. È la stessa vedova, Inge, a lamentarsi.

Non è la prima volta che dal Lazio arrivano brutte notizie. Il museo nel 2001 fu vittima di un saccheggio di opere (tre bozzetti di statue e una ventina di gioielli in argento, oro e bronzo) per un valore di alcuni miliardi di vecchie lire. I due banditi, evidentemente, avevano agito su commissione.

Due anni dopo fu il Messaggero a lanciare l’allarme. Il quotidiano romano denunciò lo stato di incuria crescente in cui versava la struttura: «All’esterno cresce l’erba, all’interno la polvere». Fu quella la prima volta che Bergamo si mobilitò. E lanciò l’idea: il museo sarebbe rimasto ad Ardea, ma avrebbe potuto consentire una sorta di «prestito allungato» di alcune decine di sculture, da avvicendare a rotazione: un modo per favorire la creazione di un «polo» Manzù nella città che diede i natali all’artista, senza per questo non diciamo smantellare ma nemmeno sminuire il museo di Ardea, che fu lo stesso Manzù a volere con molta passione e altrettanta decisione.

Perché non rilanciare l’idea di una collaborazione? A Bergamo non mancano i luoghi per accogliere il patrimonio del Manzù. Se guardiamo alle opere da esporre, la Gamec o la stessa Carrara sono ottimali. Se puntiamo alla valorizzazione del materiale documentario, invece, le competenze dei due musei, unite a quelle dell’università, potrebbero consentire uno studio sistematico dell’enorme archivio storico di Ardea: lettere, fotografie, disegni, bozzetti.

Beninteso, non è che Roma finora non abbia fatto nulla, anzi. In occasione del centenario della nascita la Galleria nazionale d’arte moderna, sotto la cui egida sta il museo di Ardea, aveva realizzato uno splendido lavoro di schedatura degli articoli a stampa dedicati al Maestro. E poi, magari, chissà, una volta terminato lo studio di questo materiale, ne potrebbe uscire una piccola grande mostra, l’ideale per uno spazio abbandonato come il Carmine. Ma non dimentichiamo che quello di Manzù è un nome popolare anche presso il grande pubblico, quindi in grado di calamitare visitatori alla rinnovata Accademia Carrara.

Bergamo e Roma (Ardea) non sono rivali, ma alleate. Se la contrapposizione si attesta sulla scelta del luogo ideale per il museo, il rischio è la deriva in una rivalità di stampo campanilistico che non porta da nessuna parte, come il passato ci ha dimostrato: dalla sollevazione popolare della cittadina laziale (sindaco in testa) alle folgori lanciate dalle associazioni culturali che nella cittadina dedicano tempo, energie, risorse.

Insieme, per Manzù. Vale la pena provarci.

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