Risiko in Siria
Onu impotente

Dopo tanti tentativi falliti di trovare una soluzione, la domanda che i diplomatici si pongono non è più «come» si riuscirà a mettere fine alla guerra civile in Siria, ma «se» questo orribile conflitto avrà mai termine.

Oltre al regime di Assad, all’Isis, al Libero esercito siriano e alle Forze democratiche siriane legate ai peshmerga curdi, vi sono infatti ormai coinvolte troppe potenze straniere - dagli Stati Uniti alla Russia, dalla Turchia all’Iran, dall’Arabia saudita agli Emirati - ciascuna con obbiettivi e interessi diversi. La storia insegna che, in questi casi, arrivare alla pace è molto più difficile, perché il sostegno esterno che arriva puntuale quando uno degli attori è in difficoltà fa sì che nessuno possa né vincere, né perdere. E c’è anche il sospetto che gli stessi protagonisti siriani preferiscano lo status quo, per orribile che sia, perché temono che se la guerra si concludesse con la vittoria indiscussa di una delle parti, ne seguirebbe un bagno di sangue ancora peggiore del conflitto.

Nessuno si illude che forze esterne, meno che meno i Caschi blu dell’Onu, si avventurino a garantire la pace in un Paese lacerato, semidistrutto e infestato di terroristi e tutti i combattenti temono per il proprio avvenire, con scarso o punto riguardo per la popolazione civile: la minoranza alawita schierata con Assad, per esempio, ha addirittura paura di essere sterminata, i curdi di perdere l’autonomia conquistata col sangue e i ribelli sunniti di subire ulteriori vendette del regime. Ma, soprattutto, nessuno crede più alla possibilità che la Siria possa mantenere i vecchi, e artificiali, confini.

A complicare ulteriormente le cose, è intervenuta recentemente l’invasione armata della Turchia, con l’appoggio del Libero esercito siriano, un amalgama di formazioni delle più diverse tendenze, dal laico-liberale all’islamista, che nonostante i dubbi sulla loro affidabilità hanno ricevuto armi e addestramento dalla Cia e da altri servizi occidentali. Sulla carta, l’obbiettivo della Turchia era di cacciare l’Isis da Jarabulus, una città di confine attraverso la quale passavano molti dei suoi commerci clandestini.

Ma, appena sconfitti gli jihadisti, l’esercito turco e i suoi alleati - quasi tutti colti alla sprovvista da questo cambio di obbiettivo - si sono rivolti contro i curdi che Erdogan ritiene legati a filo doppio ai terroristi del Pkk, ma che finora il Pentagono considerava i suoi più efficienti alleati, assicurando loro rifornimenti e copertura aerea.

Abbiamo così assistito allo spettacolo paradossale di due forze formalmente alleate degli Stati Uniti che si sono messe a combattere tra loro. Ankara vuole ad ogni costo evitare che i curdi saldino tra loro le due enclave che controllano lungo i suoi confini meridionali, perchè una «repubblica di Rojava» ampliata e consolidata diventerebbe un punto di riferimento per i separatisti di casa sua. Infatti risulta che il suo corpo di spedizione abbia «liberato» solo quattro villaggi occupati dall’Isis ma ben undici villaggi curdi. In questi frangenti, l’amministrazione Obama non sa che pesci pigliare.

In questo caos spicca la interminabile battaglia per Aleppo tra le forze governative sostenute dai russi e il Libero esercito siriano, che continua a mietere decine di vittime tra i civili e in cui due giorni fa sarebbe caduto addirittura il numero due del Califfato, quell’Al Adnani responsabile per la propaganda, per l’incitamento a uccidere infedeli con qualsiasi mezzo e per l’organizzazione degli attentati in Europa. Da tempo spaccata a metà tra lealisti e ribelli, la seconda, e più antica città della Siria viene sistematicamente distrutta, con perdite incalcolabili anche per il patrimonio artistico, perché entrambe le parti la considerano uno snodo essenziale per la loro strategia. L’Onu non riesce neppure a organizzare brevi tregue per rifornire la popolazione civile dei generi essenziali. In questa lotta di tutti contro tutti, è scomparsa anche ogni parvenza di umanità

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