Russiagate? Scusa
per cacciare Trump

Il titolo è: Trump è sotto indagine per il Russiagate. Poi, se uno va a leggere, scopre una realtà un po’ diversa. E cioè che il Washington Post ha scritto che il procuratore speciale Robert Mueller, incaricato appunto di chiarire che cosa sia davvero successo con le interferenze russe nel processo elettorale, avrebbe intenzione di sentire alcuni alti funzionari dei servizi segreti e che starebbe prendendo in considerazione l’ipotesi di indagare su Trump per «ostruzione alla giustizia», avendo il presidente licenziato in tronco James Comey, il direttore dell’Fbi. Comey, a sua volta, ha testimoniato sotto giuramento davanti alla Commissione Giustizia del Senato. E ai senatori ha detto che Trump non gli ordinò di smettere di indagare su Michael Flynn (consigliere alla Sicurezza nazionale, poi costretto alle dimissioni) ma solo se poteva «lasciar correre». Tutto questo è molto noioso da leggere ma dà l’idea di che cosa sia in realtà il famoso Russiagate: un’orgia di condizionali, di voci anonime e di finte rivelazioni ingigantite dai giornali e dalle Tv. Che Trump sia un ottimo o un pessimo presidente, che la sua politica sia a dir poco ondivaga, che la sua preparazione sia modesta, non ha nulla a che vedere con quanto sta succedendo. Trump, d’altra parte, non ha fatto quasi nulla di ciò che prometteva durante la campagna elettorale, e in molti campi ha addirittura rovesciato le proprie posizioni. E comunque il Russiagate, con i sospetti che lo riguardano, è scoppiato addirittura prima che Trump conquistasse la Casa Bianca, cioè molto prima che si cominciasse a capire di che pasta è fatto.

Basterebbe a dimostrarlo il fatto che, dopo un anno di ricerche e analisi, l’imponente apparato dell’intelligence americana (17 agenzie, 110 mila dipendenti e 60 miliardi di dollari l’anno di budget) non è ancora riuscito a mostrare una sola prova concreta del fatto che le interferenze del Cremlino abbiano dato un contributo decisivo al successo di Trump. Anzi: ogni volta che sono costretti a parlare esplicitamente, gli alti papaveri dei servizi segreti ribadiscono che le elezioni furono regolari. Ultimo della serie, nella testimonianza al Senato, lo stesso Comey. Non si tratta quindi di un problema di sicurezza (l’attacco informatico agli Usa da parte di una potenza straniera) ma di una questione politica.

Ovvero del desiderio di una parte dell’establishment americano (Partito democratico, una frangia del Partito repubblicano, una parte dei funzionari governativi di carriera, multinazionali del divertimento e dell’informatica) di sbarazzarsi di questo estraneo arrivato non si sa come alla presidenza degli Stati Uniti d’America e percepito come una vera minaccia.

A questo si affianca la pulsione russofoba che anima la destra neocon e che trova comodo vedere nella Russia di Vladimir Putin l’origine di tutti i mali del mondo. Con esiti a volte paradossali. Qualche tempo fa, all’epoca dell’elezione di Emmanuel Macron alla presidenza della Repubblica francese, l’ammiraglio Michael Rogers, capo della National Security Agency americana, si fece portavoce della accuse ai russi, che avrebbero provato a interferire anche in quella elezione. Sulla sua scia, molti grandi giornali americani (primo fra tutti il New York Times) scrissero articoli infuocati sul pericolo per le democrazie a causa degli intrighi russi. Qualche settimana dopo, però, il capo dell’Agenzia governativa per la sicurezza informatica di Francia affermò che non vi erano tracce di attività illecite da parte del Cremlino e dintorni. E tutti fecero finta di niente.

Ma un pericolo per la democrazia in realtà c’è. E non sta in ciò che fanno i russi (che di certo spiano tutto ciò che possono, come tutti) ma nella corsa autodistruttiva in cui si sono buttati gli americani. Quello che sta avvenendo è semplice. Si tenta di sovvertire il cardine della democrazia che sta in un principio molto semplice: chi vince le elezioni ha il diritto di governare. Bello o brutto, abile o incapace che sia. Ed è straordinario che questo pericolo, corso per giunta dalla potenza leader del mondo occidentale, sia così sottostimato e, anzi, passi quasi inosservato. Forse Trump verrà cacciato, o forse no. Nell’uno come nell’altro caso potremmo assistere alla più disastrosa delle vittorie di Pirro. Con Trump in sella a una democrazia resa immobile come Gulliver dai lacci dei lillipuziani. O con Trump atterrato in una democrazia senza bussola e dominata da gruppi di potere senza mandato popolare.

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