Scuola e precari
Il pasticcio di Renzi

Dunque, niente decreti «Buona scuola». Ci sono ragioni dette e ragioni non dette. Certo si tratta di una sconfitta politica autoinflitta. Il che la rende più grave. Mentre il decreto, qualora approvato, poteva decidere in tempi brevi, il disegno di legge incontrerà tempi lunghi, dovendo camminare per una strada già affollata da decreti e disegni e progetti di legge. Quelle dette: l’operazione precari resta straordinariamente complicata.

Tutti gli interessi delle varie stratificazioni del proletariato precario sono legittimi. Solo che è matematicamente impossibile soddisfarli tutti contemporaneamente. Si possono differire, ma questo esporrebbe a contenziosi tra i singoli ricorrenti e l’amministrazione, con la quale i Tar non sono mai stati molto teneri. Ed è solo il lato B della faccenda. Perché il lato A, sottolineato da molti esperti e commentatori, questo giornale compreso, consiste nella mancata corrispondenza tra la struttura della domanda delle scuole e l’offerta del precariato. Servono docenti di matematica, si offrono per contro docenti precari di lettere.

Poi ci sono le ragioni non dette. Supposto che i tre miliardi fossero lì sul tavolo, è evidente che verrebbero sottratti ad altri importanti partite aperte: per esempio il Jobs act. Tuttavia, alle spalle delle ragioni confessate e inconfessate, ce n’è un paio decisive che hanno portato alla provvisoria - si auspica - interruzione del processo di riforma. La prima è che questa gigantesca sanatoria - la ventottesima dal secondo dopoguerra - cancella nell’immediato la massa di precariato, ma non rimuove le cause che ne riproducono il riaccumulo.

Se per sostituire un docente che se ne va, devo rivolgermi a Roma, l’attesa può durare anni o decenni. Anche nell’ipotesi di concorsi annuali, i tempi di subentro sarebbero comunque di circa due anni. Intanto la scuola è costretta a chiamare un precario. Di qui riparte, già domani, il reclutamento di un esercito proletario di riserva.

Come impedire il riaccumulo? Cambiando radicalmente le modalità del reclutamento. Occorre riconoscere alle autonomie scolastiche il potere di assumere. La gestione centralistica della relazione domanda/offerta non è in grado di rispondere in breve tempo alle domande delle scuole. E qui è mancato e continua a mancare il coraggio del governo. La cultura politica dominante nelle politiche scolastiche continua ad essere dettata dall’Amministrazione statale-ministeriale, della quale sono subalterni i sindacati e succubi anche le forze politiche che si dicono riformiste.

Il centralismo prussiano di Federico II e quello francese di Napoleone, importati da Casati e da Gentile in Italia, continuano ad essere il modello di organizzazione del sistema. Ha funzionato, finché la scuola era per pochi. Non regge più dalla fine degli Anni Sessanta del secolo scorso. Le scuole non sono più uffici ministeriali decentrati, stanno diventando elementi costitutivi della società civile. I dirigenti e gli insegnanti e i genitori lo sanno. Lo Stato no.

L’opposizione statalistica alla realizzazione delle autonomie oggi si ammanta di ideologia anti-liberista: riconoscere alle autonomie il potere di assumere significherebbe trasformare le scuole in aziende. Gli stessi che piangono lacrime sul destino infelice dei precari continuano a difendere il meccanismo che li genera. Trattasi di lacrime di coccodrillo.

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