Senza speranze
Giovani senza futuro

È innegabile. Senza uno sguardo rivolto in avanti, è impossibile pensare di migliorare le cose. E non mi riferisco soltanto agli sforzi per trovare cure e rimedi per malattie oggi incurabili o agli sforzi per consolidare il benessere sociale di cui godiamo, con la speranza di estenderlo a quelle parti del pianeta che ne sono ancora prive. Porsi nella prospettiva del domani è infatti un esercizio cui non si può sottrarre nessuno. Lo dovrebbero sapere tutti quelli che hanno responsabilità nel mondo della politica e dell’economia, delle imprese e delle istituzioni in generale, nel senso cioè che dovrebbero quanto meno essere consapevoli di ciò che non va e che necessita dunque di essere riformato.

Un brevissimo elenco, ovviamente per difetto: avere città più vivibili, servizi degni di questo nome, più ragazzi che si laureano, mettendoli nelle condizioni di trovare occupazione più facilmente, abolire le sperequazioni sociali, ecc. In un futuro prossimo, bell’appunto. Sono quelle che, a volte forse con un’enfasi un po’ eccessiva, chiamiamo «le nuove sfide del futuro», che implicano scelte, strategie e preparazione adeguata per poterle affrontare. E che nel caso della scuola e dell’università risultano tuttavia più difficili, per la semplice ragione che qui non dobbiamo occuparci soltanto di produrre e trasmettere sapere, compiti che comunque rimangono centrali e imprescindibili, ma anche di formare dei cittadini. Quei cittadini che, lo dico senza retorica, saranno davvero la società del futuro. Ma ci sono le condizioni per far sì che questo passaggio di consegne – oggi ideale, ma domani ben concreto e inevitabile – avvenga nel migliore dei modi? Stiamo davvero preparando la strada alle nuove generazioni? Stiamo davvero dando loro una buona immagine del futuro?

Mi limito a qualche esempio preso dalla realtà che conosco un po’ meglio, l’università, dove le sfide rappresentano la sua stessa ragion d’essere. A partire dalla sua capacità di integrare e rinnovare l’offerta dei contenuti, aprendosi ai contributi esterni – la cosiddetta open innovation – e creando una collaborazione ancor più concreta e virtuosa con le esigenze del territorio, anche in termini di orientamento nel mondo del lavoro. Da questo punto di vista, oltre alla ricerca e alla didattica, la terza missione, ossia la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze al contesto socio-economico in cui si opera, sarà sempre una priorità e una sfida con cui cimentarsi. Non solo. Bisogna puntare a progetti innovativi, per essere attrattivi anche a livello internazionale, premiare il merito, offrire una didattica adeguata e al passo coi tempi, occuparsi anche di quei ragazzi con problemi specifici di apprendimento, aiutandoli in un percorso che per loro è più difficoltoso. E ancora: individuare le strategie culturali e politiche più efficaci per indirizzare il potenziale della ricerca scientifica e tecnologica verso obiettivi pratici, aprendo così nuove prospettive di sviluppo sia all’interno della stessa università sia nella società. Sfide che riguardano non solo l’università, ma anche la società nel suo complesso, di cui ovviamente l’università è parte integrante.

Partendo ora dal presupposto che affrontare e vincere queste sfide significhi pensare a chi potrà ricavarne benefici, e quindi ai suoi beneficiari, che sono appunto le generazioni del futuro, è fondamentale, come ho ricordato all’inizio, capire quale immagine del futuro stiamo dando ai nostri ragazzi. Ho infatti la sensazione che il futuro appaia loro quanto mai minaccioso, anzi, peggio, già deciso senza alcuna possibilità di poterne invertire la rotta. Mi sembra cioè che i ragazzi, a differenza di quanto accadeva alle passate generazioni, pur nella consapevolezza di potersi avvalere di tanti progressi e opportunità prima neanche immaginabili, stiano rinunciando a qualcosa di assai prezioso: lo slancio fiducioso verso l’avvenire, l’idea di poter incidere sul proprio destino. Insomma, ho come l’impressione che i nostri ragazzi abbiano fatto propria la celebre battuta di Karl Valentin, il geniale attore teatrale bavarese amico di Bertolt Brecht, quando diceva «una volta il futuro era migliore». Certo, una battuta, ma che ci fa capire come tutto dipenda dalle aspettative che abbiamo rispetto a qualcosa che non c’è ancora, il futuro appunto, e che non possiamo raffigurarci radioso, soprattutto se si proviene, come nel caso di Valentin, dalla tragica esperienza di due guerre mondiali. Oppure, per rimanere più vicini a noi, se pensiamo a fatti terribili come i recenti attacchi terroristici a Barcellona e a Cambrils.

Nessuno può dirci come sarà il nostro futuro. Per fortuna. Ma è senz’altro da scongiurare ogni mancanza di prospettiva, spesso associata a un senso opprimente di rassegnazione, che serve soltanto a tarpare le ali e a deprimere gli animi. E lo si può fare soltanto sul piano formativo e culturale, dando ai giovani un’immagine del futuro realistica, ma più serena, con il legittimo gusto della speranza e degli ideali che non possono e non devono mai mancare. Prima di tutte le sfide del futuro, è questa la vera nuova sfida che dobbiamo affrontare.

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