Tassare la sicurezza
L’ultimo paradosso

La vicenda delle telecamere di sorveglianza, dislocate nelle città, sulle quali il ministero dello Sviluppo economico chiede ai comuni di pagare il canone sfiora il grottesco. Che dire? Nell’azione delle amministrazioni dovrebbe vigere il principio aristotelico di non contraddizione. Che invece emerge, con smagliante vivacità, nella circolare del 27 febbraio scorso. Le telecamere piazzate in molti punti strategici (si spera) di Bergamo e dei comuni della provincia fungono da presidio fisso e costante dell’attività tesa a prevenire reati, ovvero a rendere più agevole la scoperta delle persone che commettono reati. Dai furti e dalle rapine, fino agli omicidi e agli atti terroristici.

Ovviamente, queste attrezzature hanno un costo, ma esso è «dentro» i costi necessari – anzi indispensabili – a garantire il miglioramento dei livelli di sicurezza dei cittadini. Tali costi non possono essere frutto di richieste di risarcimento da parte dello Stato. Per la elementare ragione che, così facendo, lo Stato chiederebbe ai comuni (quindi, ai cittadini di quel comune) di pagare per un servizio che obbligatoriamente esso è impegnato a garantire.

Ha perfettamente ragione l’assessore regionale alla Sicurezza, Simona Bordonali, a parlare di «balzello che suona come una rapina». Mai espressione fu più azzeccata, se si tiene conto che le installazioni per le quali lo Stato chiede ai Comuni di pagare il canone dovrebbero, tra l’altro, scongiurare proprio le rapine. La circolare dello Sviluppo economico – al di là del merito (già in sé discutibile) – sembra evocare uno scenario da pochade francese di inizio Novecento. E, se non ci fosse da piangere, verrebbe da ridere, perché la rapina di Stato per prevenire le rapine dei malviventi si colloca d’ufficio tra più acclamate invenzioni di una burocrazia che mostra talvolta una ottusità che rasenta il sublime. Ben a ragione il vicesindaco Gandi sottolinea che gli occhi elettronici sono stati installati coinvolgendo le prefetture, quindi come strumento di garanzia della sicurezza dei cittadini, non come orpello.

In realtà, il punto nodale è chiaro: occorre stabilire quale sia l’esigenza pubblica prevalente da tutelare. Lo ricordava un grande maestro del diritto amministrativo – Massimo Severo Giannini – che fu anche, alla fine degli anni Settanta, ministro per la Funzione pubblica. Egli forse si rigira nella tomba, vedendo come l’amministrazione pubblica – che tentò coraggiosamente di riformare – agisca spesso come un vecchio ubriaco. Nel caso delle telecamere utilizzate per sorvegliare i luoghi più esposti al rischio di reati nessuno può negare che l’aspetto primario sia la sicurezza. Tutto il resto passa in secondo (o terzo) piano. A cominciare – occorre ricordarlo – dai profili di ipotetica violazione della privacy del cittadino per bene che passa ignaro davanti alla telecamera e viene, senza saperlo, osservato e filmato. Magari ogni tanto qualcuno, passando sotto il vigile strumento elettronico, si mette le dita nel naso (cosa che non sta bene) e, se sapesse di essere stato immortalato, se ne vergognerebbe un poco. Ma – come direbbe monsieur De La Palice – è contento di sapere che quell’occhio elettronico birichino salvaguarda anche la sua sicurezza. E allora gli sta bene così.

È sperabile che tutta la vicenda si sgonfi rapidamente, per non continuare ad assomigliare a quelle piéces teatrali tutte giocate sul filo dell’equivoco. Qui la mano destra, il Mise, non sa cosa fa la sinistra (il ministero dell’Interno), impegnata a garantire il maggior livello possibile di sicurezza dei cittadini. La collaborazione dei comuni è essenziale per ottenere risultati adeguati. Quindi, che essi siano obbligati a pagare un «canone» per le installazioni di strumenti di sicurezza è paradossale. Prima ancora che giuridicamente dubbio.

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