Un cambio di passo
di fronte ai populismi

Tutto il mondo è in trepida - o viceversa preoccupata - attesa di conoscere se Trump, ora che si è insediato alla Casa Bianca, tradurrà in azioni di governo le promesse incendiarie fatte in campagna elettorale. Per quanto, alla resa dei conti, i fatti si possano scostare dalle parole, è bene comunque non farsi soverchie illusioni. Sono troppi gli indizi per non prendere atto che è iniziata una nuova era nella vita dell’Occidente e, per traslato, del mondo intero. «America first»: è la parola d’ordine che risuona dall’altra sponda dell’Atlantico. «Hard Brexit»: proclama dalla sponda opposta Theresa May.

«Fuori dall’euro», minaccia Marine Le Pen, candidata con buone chance di riuscita alle prossime elezioni presidenziali francesi. L’orizzonte delle democrazie si tinge di nuovi, anzi di antichi, foschi colori. Nazionalismo e protezionismo: l’accoppiata incendiaria che ha dominato il mondo nel ventennio entre deux guerres (1919-1939), non a caso definita l’«età della crisi», torna a campeggiare sulla scena politica mondiale.

Che ci piaccia o no, bisogna entrare nell’ordine di idee che il futuro prossimo venturo sarà dominato dalla forma moderna del nazionalismo e del protezionismo, ossia dal populismo. Una domanda, a questo punto, diventa d’obbligo: è pronto, è attrezzato a dovere il nostro Paese per affrontare, senza essere condannato a soccombere, la proibitiva prova che lo aspetta? Quando l’ambiente esterno si fa ostile, la prima reazione istintiva è di stringersi per resistere alla minaccia incombente.

Divisi e spesso rissosi quando tira vento di bonaccia, allo scatenarsi di una burrasca, noi italiani, ci siamo sempre dimostrati capaci di miracoli. Abbiamo sotto gli occhi lo sforzo corale fatto di sacrificio e di coraggio spinti all’estremo di cui i soccorritori delle vittime del crollo di Frontignano sono stati capaci. Nell’emergenza troviamo energie insperate, in condizioni normali fatichiamo invece a trovare il tempo, la voglia e il modo di prevenire le sciagure.

L’era che si annuncia non è, però, un’occasionale emergenza che si possa affrontare con le stesse risorse di coraggio, dedizione, disposizione al sacrificio. Un cambio d’era richiede un cambio di passo. Non solo della politica, ma dell’intero sistema Paese. Sono in crisi, o comunque a rischio, i capisaldi su cui si sono rette le democrazie in questo lungo dopoguerra. «America first» pone in second’ordine, se non in liquidazione, l’idea stessa di Occidente come comunità di valori e di interessi. Sta saltando la difesa comune (Nato). Sono in discussione i trattati di commercio (prima vittima il progetto di una zona transatlantica di libero scambio, il cosiddetto Ttip). Traballa la Ue, già abbandonata dall’Inghilterra ed esposta alla minaccia della secessione da parte della Francia, una delle nazioni sottoscrittrici dei Trattati di Roma del 1957 e seconda economia del Vecchio Continente.

Di fronte ad una sfida di tal fatta bisogna essere non poco ottimisti per dire che siamo preparati alla prova. L’unico leader sulla piazza (Renzi) è in disarmo, per il resto regna un buio pesto. I partiti sono o spappolati (a destra) o in gran subbuglio (a sinistra) o in gran confusione (Cinquestelle). All’orizzonte si prospetta la frammentazione del sistema politico grazie al recupero del proporzionale. Resta una sola speranza: che lo stellone d’Italia torni a soccorrerci, come è sempre avvenuto in passato nei momenti difficili.

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