Una frattura storica
L’Italia in guerra

L’Italia, dopo 33 anni di alleanza con Austria e Germania e 10 mesi di neutralità, il 24 maggio 1915 entra in guerra a fianco dell’Intesa in nome del «sacro egoismo nazionale» e con un peccato originale: quello di essere un Paese spaccato. Due nazioni, l’una contro l’altra.

Da un lato interventisti democratici (repubblicani, radicali, socialriformisti di Bissolati) più frange del sindacalismo rivoluzionario e interventisti nazionalisti. Il conflitto riunisce gli opposti. Chi vi vedeva la conclusione del Risorgimento (Trento e Trieste) e la lotta dei popoli per la libertà. E chi, nella variante di destra, affermava l’istanza imperialista e modernizzatrice dell’Italia con un’offensiva frontale e antiparlamentare. Una strano nucleo militante, cementato dall’obiettivo antiasburgico e dal progetto di rovesciare gli equilibri interni, a cominciare dall’odiato sistema giolittiano.

Dall’altro lato il blocco neutralista di Giolitti, cattolici e socialisti: troppo diverso per trasformarsi in alleanza politica. Quella delle due nazioni è una caratteristica che non ha uguali: in Francia, Inghilterra e persino in Germania si formano governi di «union sacrée», socialisti compresi. Da noi i governi di unità nazionale che seguono quello di Salandra, pur comprendendo il cattolico Filippo Meda ed esponenti della sinistra interventista, non rappresentano tutte le forze che agitano il Paese. E questo per l’azzardo autoritario del governo Salandra, per il sovversivismo nazionalista e il massimalismo del movimento operaio e di gran parte dei socialisti.

Il radicalismo che divide è il punto di rottura, come ha scritto lo storico Ernesto Galli della Loggia, evidenziando il deficit di cultura liberaldemocratica che ha caratterizzato il ‘900: «Si creò allora una frattura che non fu più ricomposta, anticipatrice delle molte del dopoguerra che dovevano portare al fascismo. Entrammo in guerra, insomma, tra non poche ombre, destinate poi, negli anni immediatamente successivi, a diventare una notte fonda». È la piazza (oggi diremmo populismo) che trasforma una minoranza in maggioranza autorappresentativa del Paese reale. La cultura è egemonizzata dal nazionalismo che raduna intellettuali come Gentile, Prezzolini, Einaudi e Salvemini. Su tutti svetta il vate D’Annunzio.

La Grande guerra, la «catastrofe originaria» del ‘900, è anche la «guerra dei media», la «guerra dei giornalisti». Sotto attacco è la democrazia parlamentare e s’impongono invocazioni alla guerra come «igiene del mondo» e mito rigeneratore dello spirito: parole e scritti come proiettili creano il corredo mentale dello squadrismo fascista, che si alimenta della sacralità della guerra, trovando poi un moltiplicatore nell’estetica della «vittoria mutilata». In un Paese sostanzialmente neutralista (masse contadine e parlamento), Salandra e il ministro degli Esteri Sonnino, con l’avallo del re, nell’aprile del ’15 firmano il Patto di Londra con Francia, Inghilterra e Russia, senza informare né gli altri ministri né il parlamento.

È con questa ferita alla legalità democratica che l’esercito di Cadorna entra in guerra. Una strategia d’attacco, fatta di «spallate» sull’Isonzo, con assalti alla baionetta che pretendono un sacrificio di vite assolutamente sproporzionato rispetto ai risultati. La disciplina è severissima, spesso irragionevole. La guerra di movimento muta in guerra di posizione. È nel trauma della vita in trincea che si forgia l’identità italiana, con la nazionalizzazione delle masse proletarie, in gran parte contadini analfabeti. Il primo atto, che coglie di sorpresa gli italiani, è la «Strafexpedition» (la spedizione punitiva contro il vecchio alleato) che si arresta sugli altipiani di Asiago, ma il contraccolpo psicologico è pesante e porta alla sostituzione di Salandra.

Il ’17 è un anno difficile in trincea e pure sul fronte interno: in agosto, a Torino, scoppia la rivolta del pane e la repressione lascia sul terreno 50 morti. Ma il trauma collettivo arriva il 24 ottobre del ’17 quando un’armata austriaca rinforzata da 7 divisioni tedesche attacca le linee italiane sull’alto Isonzo e le sfonda nei pressi del villaggio di Caporetto. La ritirata si trasforma in rotta: 400 mila sbandati in marcia verso il Veneto, 300 mila prigionieri, 10 mila chilometri quadrati di territorio in mano al nemico. Cadorna, poi sostituito da Diaz, getta la colpa sui suoi stessi soldati, si chiamano in causa il disfattismo e lo «sciopero militare».

In realtà il collasso è militare e la rottura del fronte è determinata dagli errori dei comandi, divenuta irreparabile per l’efficace condotta degli austriaci: il metodo, cioè, dell’infiltrazione con rapide incursioni sfruttando l’effetto sorpresa. Paradossalmente la svolta imposta da Caporetto, con la riscossa sul Piave, modifica il clima psicologico rafforzando l’unità nazionale: la guerra diventa difensiva, perché c’è da riconquistare una parte del territorio nazionale e questo rende comprensibili gli scopi del conflitto. La vittoria a Vittorio Veneto chiude un’esperienza di morte, gloria e devastazione, ma l’eredità della Grande guerra acuisce la fragilità di una giovane nazione non ancora moderna.

I rancori dell’anteguerra, l’assuefazione alla violenza, la svalutazione della vita al fronte, la mistica del combattentismo, il deficit di legittimazione dello Stato unitario e un’élite liberale da tempo disconnessa da una società che sta diventando di massa, la vocazione rivoluzionaria dei socialisti: tutto questo spiana la strada ad un certo Mussolini.

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