Università, una ferita
per l’etica civile

Sette professori universitari agli arresti domiciliari; altri 22 interdetti per un anno dall’attività di insegnamento; in totale ben 59 indagati. Per tutti l’accusa di corruzione con l’ipotesi di un sistematico scambio di favori nelle idoneità nei concorsi universitari. Il meccanismo funzionerebbe così: io favorisco il candidato che mi indichi tu e, in cambio, in una delle prossime tornate, tu mi rendi il favore. Facile, comodo, sistema per aggirare il criterio del sorteggio dei docenti designati nelle commissioni di concorso. La vicenda vede coinvolti, tra gli altri, un ex ministro della Repubblica, nonché alcuni docenti con incarichi di prestigio e, soprattutto, di alta responsabilità. Se si pensa che uno degli «interdetti» (in senso giuridico) insegna alla Scuola superiore della magistratura, non si può non rimanere interdetti (nel senso psicologico).

Insomma, una bella patata bollente, riguardo alla quale si spera che la magistratura riesca a fare luce in tempi ragionevoli. Per esigenze generali di giustizia e per la salvaguardia stessa degli imputati, che potrebbero risultare estranei al caso. A prima vista, una succosa notizia. Ma è veramente una notizia? Fino a un certo punto, poiché esistono sostenibili ragioni che possa non esserlo.

Proviamo a distinguere le due facce del problema. La funzione di docente – a tutti i livelli di insegnamento – è (almeno dovrebbe essere) in primo luogo quella di educatore, compito per il quale l’etica non è seconda alla competenza. Anzi, la precede, come sosteneva Guido Calogero, uno dei più grandi filosofi e maestri italiani del Novecento. Quindi, se le accuse si dimostreranno fondate, la ferita per l’etica civile sarà profonda.

Un ulteriore colpo alla reputazione di un gruppo professionale al quale è affidato il compito di educare le giovani generazioni. Quale sarà il giudizio degli studenti verso quei professori che li hanno «giudicati» e valutati? Con quale animo si sottoporranno al giudizio di altri docenti?

Perché è anche una non-notizia? La ragioni, malauguratamente, esistono. Una è specifica, l’altra coinvolge lo spirito dei tempi. Molti anni fa, in una prestigiosa università italiana, il rettore, rivolgendosi a un collega che faceva vive premure affinché il figlio fosse valutato positivamente in un concorso per «libero docente», ebbe ad apostrofarlo: «Per favore, digli di scrivere qualcosa, di farsi scrivere qualcosa». Molto istruttivo e sconfortante.

La seconda ragione di sconforto rinvia al decadimento dell’etica pubblica, che derubrica a marachella o a pura superficialità comportamenti illegali, fino a nullificarne la portata negativa. Il favore, l’accomodamento, sono spesso avvertiti come il modo più semplice (se non l’unico) per mantenere relazioni nell’ambito professionale.

La circostanza amareggia e induce a riflettere sull’arduo cammino verso la normalità nel tessuto sociale del Paese. In generale, nei percorsi di carriera universitari il clientelismo è stato un fenomeno inestricabilmente collegato a un pronunciato familismo. E i confini tra i due aspetti sono stati sempre difficilmente tracciabili.

Anche nel caso delle indagini in corso, spiccano cognomi che rinviano a vere e proprie dinastie di professori universitari. Di per sé il fatto «non costituisce reato», ma fa riflettere. Possibile che l’attitudine all’insegnamento sia così di frequente ereditaria? Possibile che in quelle famiglie ci siano sempre i migliori?

I reiterati tentativi di riformare i criteri di selezione dei docenti universitari non sono riusciti a incidere più di tanto in un meccanismo che – anche quando non si configura come penalmente rilevante – è eticamente riprovevole: occhi chiusi, orecchie tappate per non vedere e non sentire. Una deriva che ha inquinato gravemente il mondo accademico.

Cosa si può fare? I rimedi - nelle situazioni complesse - sfuggono, per definizione, a soluzioni facili. Si dovrebbe partire dal presupposto che le commissioni di concorso debbano essere composte da persone fuori dal giro. Ad esempio, professori in pensione, emeriti, con un incarico al massimo biennale. Che verranno sostituiti da altri colleghi nel frattempo andati a loro volta in pensione. Commissioni nazionali di tre professori, due della materia, il terzo di una disciplina affine.

Con l’obiettivo di spezzare il meccanismo del do ut des tra i docenti universitari in servizio e, quindi, sensibili alle sirene della «abilitazione di scambio».

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