Cardaci, il maître che rese grande
la ristorazione nella Bergamasca

I capelli si erano ulteriormente diradati ed erano naturalmente diventati bianchi, ma se togliamo questo particolare neanche tanto appariscente, Stefano Cardaci era rimasto quello di sempre, magro, curato, dritto come un fuso, portamento e movenze signorili.

I capelli si erano ulteriormente diradati ed erano naturalmente diventati bianchi, ma se togliamo questo particolare neanche tanto appariscente, Stefano Cardaci era rimasto quello di sempre, magro, curato, dritto come un fuso, portamento e movenze signorili.

Come pochi altri sapeva unire savoire faire e professionalità, tanto da divenire un punto di riferimento per il mondo dei maître, categoria orgogliosamente rappresentata a livello istituzionale. Nemmeno la malattia, che da anni combatteva con fierezza e tenacia, lo aveva cambiato. Fino all’aggravamento di giovedì scorso che lo ha portato a spirare nella mattinata di domenica all’alba dei 73 anni (li avrebbe compiuti il 5 settembre).

Ricostruire la carriera di Stefano Cardaci in poche righe non è semplice, tante sono state le tappe significative. Tutto inizia nel 1960 quando, non ancora ventenne, lascia la trattoria di famiglia di Valguarnera in provincia di Enna per cercare fortuna all’estero. Prima tappa Monaco di Baviera, piccolo ai piani al Bayerisch-hof, un bell’albergo del centro. Seguono gli anni dell’esperienza e della crescita professionale in locali del Nord Europa, in Svezia in particolare. Ma per un siciliano era dura convivere con quel gran freddo. Perciò per un paio d’anni si trasferì a Londra, al Royal Lancaster Hotel, e successivamente in Germania, tra Mannheim e Francoforte, la città dove ha conosciuto e quindi sposato la moglie Helga Emig, rimasta accanto a lui per tutta la vita. Proprio lei, che lo ha assistito anche negli ultimi giorni, è stata determinante per il ritorno in Italia. Era il ’68 e la sua personale battaglia Cardaci l’aveva vinta diventando responsabile di sala. Le porte delle grandi catene alberghiere di mezzo mondo erano aperte ma lei scelse Milano. Prima meta l’arcinoto Savini, allora uno dei più importanti ristoranti italiani, quindi il neonato Hilton, poi un altro ristorante all’epoca frequentato da molti personaggi famosi, il Brellin (titolare il cantante Tony Dallara). L’approdo a Bergamo nel 1979, complici Franco Santambrogio e Sergio Mei, rispettivamente sommelier e chef. Il trio si unì nella gestione del Continental di Osio Sotto. Il sodalizio tuttavia durò poco, ognuno prese la propria strada. Cardaci accettò prima la proposta di Tino Fontana che lo volle all’Excelsior San Marco, successivamente quella di Pietro Lascari che aveva bisogno di lanciare il nuovo Cristallo Palace.

Alla metà degli anni ’80 arrivò la definitiva consacrazione alla ristorazione in proprio con l’apertura del Baio nell’omonimo quartiere di Gorle. Per una decina d’anni il Baio è stata una delle insegne più gettonate dai gourmand bergamaschi. Ed è lì che Stefano Cardaci ha saputo esprimere tutta la sua professionalità mettendo in luce anche le sue competenze in fatto di cucina alla lampada, in sala, davanti ai commensali. Al Baio sono seguiti il piccolo ristorante che portava il suo nome all’inizio di via Corridoni, quindi delle compartecipazioni alla gestione del Carmenia in via Zanica, locale misto di cucina siciliana-mediterranea ed armena, infine il Manhattan di via Malj Tabajani, insegna che lo ha visto fino a pochissimo tempo fa apportare generosamente il suo contributo di esperienza al fianco di Natalia Tchekhovskaia. Tra un’apertura e l’altra è sempre rimasto in attività prestando consulenze per l’apertura di nuovi locali in Italia ed all’estero, rivestendo ruoli di vario titolo nelle associazioni di categoria - per anni è stato presidente dei ristoratori Confesercenti – e soprattutto dispensando i suoi insegnamenti alle giovani leve.

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