Ergastolo

La parola è risuonata a martello nell’aula del Tribunale di Bergamo. «Ergastolo», un termine che sibila e rotola e fa scendere il buio sui banchi, sulle transenne, sui computer, sugli appunti, sulle cartellette, sulle toghe, sugli occhiali e sui volti di chi la ascolta.

L’ha pronunciata il pm Letizia Ruggeri in fondo a una requisitoria fiume, con un primo e un secondo tempo, pronunciata con accenti tecnici e coinvolgimenti emotivi. Tutto ciò perché quella parola non può stare appesa a un ragionamento povero o lacunoso, ma merita un supporto di prim’ordine, quella che si dice un’impalcatura giuridica.

Ergastolo. L’ha ascoltata anche Massimo Bossetti e se l’è portata dentro al ritorno in cella. Da oggi e fino al giorno della sentenza lo accompagnerà nel suo viaggio interiore alla ricerca d’una verità che per ora egli solo conosce. Non abbiamo alcuna intenzione di rifare il processo (peraltro non ancora finito) perché non ne abbiamo la competenza, i mezzi tecnici e neppure lo spazio. Per fortuna non siamo chiamati a giudicare nessuno. Ma quella parola è stata pronunciata così vicino a noi da non poter passare inosservata. Non qui, non in uno dei luoghi d’elezione del cattolicesimo lombardo, concreto e incline (sempre) alla speranza.

Ergastolo. Papa Francesco l’ha recentemente definito una «pena di morte nascosta» proprio perché rende impossibile la rieducazione e priva la persona non solo della libertà per sempre, ma anche della speranza. È previsto dai codici, è una conseguenza di reati terribili; così dice la legge e va rispettata. Ma il nostro Paese, guardando ben oltre il caso specifico, prima o poi dovrà occuparsi della terribile parola a martello.

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