Il «salva casta»

Le manette nascoste. Non c’è niente di più subdolo e infantile, ma evidentemente il Palazzo - quando sente parlare di giornalisti e diffamazione - avverte pruriti sudamericani (o turchi).

Le manette nascoste non le aveva ancora inventate nessuno, ma hanno fatto capolino in Senato dove la commissione Giustizia ha approvato all’unanimità un sacrosanto provvedimento contro le intimidazioni (violenze e minacce) nei confronti degli amministratori locali. Nelle more si propone che le pene stabilite per alcuni reati - fra i quali la diffamazione a mezzo stampa - siano aumentate di una percentuale se «il fatto è commesso ai danni di un componente di un corpo politico, amministrativo o giudiziario».

Traduzione dal burocratese: il giornalista che diffama un politico o un magistrato rischia fino a nove anni di prigione. Così, mentre da una parte si continua a discutere con tono felpato sull’opportunità di togliere il carcere al giornalista nell’esercizio delle sue funzioni, dall’altra si decide di aumentare il massimo della pena e di proporre un provvedimento che già sin d’ora è stato battezzato «salva-casta».

Con un’aggravante: di fatto si sancisce il principio che politici e giudici sono cittadini di serie A mentre tutti gli altri restano cittadini di serie B. Tutto questo sembra francamente sbalorditivo, soprattutto perché messo nero su bianco. In realtà la differenza c’è già, basti pensare che una vecchia circolare del Csm (numero 5245 dell’11/6/1981) invita a una trattazione più sollecita nei procedimenti riguardanti le toghe. Quelli riguardanti i politici vanno avanti addirittura in Ferrari. Poi ci scandalizziamo quando, sulla libertà di stampa, siamo sempre in zona retrocessione

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