Primi in classifica

Croazia 20 per cento. Lussemburgo 20,1 per cento. Cipro 24,4 per cento. Danimarca 24,5 per cento. Irlanda 25,9 per cento. Bulgaria 27 per cento. Svizzera 28,8 per cento. Islanda 29,6 per cento. Slovenia 31 per cento. Gran Bretagna 32 per cento. Lettonia 35,9 per cento.

Finlandia 37,9 per cento. Norvegia 39,5 per cento. Polonia 40,3 per cento. San Marino 40,5 per cento. Olanda e Portogallo 41 per cento. Malta 41,3 per cento. Romania 42 per cento. Lituania 42,6 per cento. Ungheria 48,4 per cento. Germania 48,8 per cento. Svezia 49,1 per cento. Estonia 49,4 per cento. Grecia 49,6 per cento. Spagna 50 per cento. Repubblica Ceca 50,4 per cento. Slovacchia 51,2 per cento. Austria 51,7 per cento. Belgio 58,4 per cento. Francia 62,7 per cento. Italia 64,8 per cento.

Stiamo ovviamente parlando di tasse. È la classifica della Banca Mondiale che ci vede vergognosamente in testa a livello continentale, altro che Champions league. È la somma di quelle da lavoro, da profitto e le altre (accise, Iva, tasse comunali e regionali). Basterebbe questo come urlo e buon lunedì. Ma ci sono due conseguenze, una vecchia e una relativamente nuova. Quella vecchia. Se l’Italia fatica a ripartire in un contesto perfetto (energia e denaro a basso costo, euro competitivo), la colpa non è dei lavoratori e degli imprenditori, ma sempre più chiaramente dello Stato, incapace di tagliare la spesa pubblica, prima causa di un’imposizione fiscale da sceriffo di Nottingham. Con il 64,8% di imposte siamo passati da cittadini a sudditi. Seconda conseguenza. I tre Paesi che pagano più tasse (Italia, Francia, Belgio) sono quelli in cui la sicurezza percepita - in due casi pure la reale - è minore. Vuol dire che le tasse vengono utilizzate male, di sicuro non per difendere i sudditi. I quali, a differenza dei cittadini, valgono meno.

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