«Insonnia fatale familiare»
Non si dorme più fino a morirne

Non si dorme più fino a morirne. È l’insonnia fatale familiare (FFI) una rara patologia da prioni, di origine genetica, che colpisce il cervello e per cui non esiste cura. Descritta per la prima volta nel 1986 in una famiglia italiana, poi in Francia, Germania, Inghilterra, Austria, Giappone, Australia, Pakistan, Cina e Stati Uniti, la malattia si manifesta intorno ai 50 anni e porta alla morte in un arco di tempo che va da sei mesi a due anni.

I sintomi sono sudorazione continua, tremori, disturbi comportamentali, decadimento cognitivo e un rapido e inarrestabile dimagrimento, ma soprattutto l’impossibilità di «chiudere occhio», a causa della morte dei neuroni in quelle parti del cervello che controllano l’alternanza tra sonno e veglia.

Ora c’è uno strumento in più per studiarla e comprenderne i meccanismi: un topo transgenico in cui è stata inserita la variante maligna della proteina prionica (il prione) e che riproduce le caratteristiche principali della malattia umana. Il modello è stato sviluppato dal gruppo di Roberto Chiesa del Dipartimento di Neuroscienze dell’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche «Mario Negri» di Milano, in collaborazione con Luca Imeri del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Milano e con Fabrizio Tagliavini della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico «Carlo Besta».

«I primi studi effettuati sul topo modello - spiega Roberto Chiesa - suggeriscono che la causa della disfunzione e della morte dei neuroni sia l’accumulo della proteina prionica nella via secretoria, ovvero in quel compartimento all’interno della cellula in cui transitano le proteine destinate alla membrana cellulare o all’esterno della cellula».

Lo studio, finanziato da Telethon, dal ministero della Salute e da Fondazione Cariplo, è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista PLOS Pathogens ed è un importante passo avanti, anche se la strada verso la cura di questa rara patologia è ancora lunga.

I ricercatori, però, avranno la possibilità di studiare la malattia su un animale - e non solo sulle cellule di laboratorio che pur utili non riproducono la complessità del cervello - e potranno valutare l’efficacia di eventuali terapie che verranno messe a punto.

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