L’emicrania nei bambini
Oltre 3 anni per la diagnosi

Fino a tre anni di pellegrinaggi tra medici tradizionali e «alternativi», farmaci e esami clinici, prima di arrivare a una diagnosi corretta dell’emicrania nei bambini, un problema che affligge circa il 9% degli under 12 e che però viene scovato in media due anni dopo i primi sintomi.

Il problema è stato al centro di una delle sessioni della scuola di pediatria dedicata al mal di testa organizzata a Capri da Paidòss, l’Osservatorio Nazionale sulla salute dell’infanzia e dell’adolescenza (www.paidoss.it). A «certificare» l’attesa media per la diagnosi, esattamente 20 mesi con punte di 36, è stato uno studio coordinato da Bruno Colombo, responsabile del centro per la cura e la diagnosi delle cefalee dell’età pediatrica ed adulta dell’università Vita-salute, ospedale San Raffaele di Milano. «È per questo - spiega Colombo - che servono programmi educazionali per rendere più partecipi i pediatri. Serve una cultura della patologia anche minima per riuscire a cogliere il sommerso, tutti quei casi che arrivano troppo tardi, dopo essere passati magari da specialisti non idonei, come l’odontoiatra, o attraverso test diagnostici costosi e non conclusivi».

Con un pò di attenzione da parte dei genitori e un semplice questionario per i pediatri, avvertono gli esperti, è però possibile ridurre questo ritardo, evitando sofferenze inutili per i bimbi e spese a volte ingenti per tutta la famiglia. I primi a cogliere i campanelli d’allarme dell’emicrania dovrebbero essere ovviamente i genitori. «Il genitore dovrebbe iniziare a preoccuparsi innanzitutto se anche lui soffre di emicrania - sottolinea l’esperto -: la familiarità, infatti, aumenta del 40% il rischio, e del 70% se a soffrirne sono entrambi i genitori. Poi si deve osservare il comportamento del bambino, che spesso non è in grado di comunicare bene il dolore. Un bimbo che soffre di emicrania si ritira dalle attività sociali, evita gli sforzi, ha tutta una serie di comportamenti che devono essere presi sul serio, mentre qualche volta si è portati a pensare che sono un modo per attirare l’attenzione. Il pediatra, poi, con poche domande mirate può confermare il sospetto».

Una volta ottenuta una diagnosi certa ci sono delle alternative terapeutiche. «La prima cosa che chiediamo ai genitori - spiega Colombo - è di tenere un diario delle crisi. Se si supera il limite di 4 attacchi al mese interveniamo. Dal punto di vista della terapia stiamo ottenendo buoni risultati con la Ginkgolide B insieme a coenzima Q10, vitamina B12 e magnesio, tutte sostanze naturali, mentre in casi più gravi si possono usare gli antidolorifici a minore impatto. Ci sono poi dei cambiamenti di stili di vita, a cominciare dall’eliminazione di alcuni cibi, che possono aiutare. L’importante è non affidarsi al «fai da te», come fanno ad esempio certe mamme che danno al figlio i loro stessi farmaci».

Secondo un altro studio, sempre firmato da Colombo, pubblicato un anno fa su Neurological Sciencs, l’80% dei piccoli pazienti ha usato medicine alternative o complementari. «In questo caso - sottolinea l’esperto - è fondamentale parlarne con il medico curante, perché questo tipo di rimedi può avere delle interazioni pericolose con i farmaci tradizionali».

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