Le passioni dell’attesa
La paura e la politica

Il nuovo e consolidato approccio dei mass media, social o no, alla storia degli uomini è sempre più quello dell’eccitazione delle emozioni e delle passioni. Non l’intelligenza del mondo, ma l’emozione/passione dal mondo.

Dalla pubblicità televisiva alle cronache sportive, dai film ai documentari l’allargamento dell’audience è tenacemente perseguito attraverso il potenziamento delle emozioni. Non la realtà aumentata, ma l’emozione/passione aumentata. Nella concreta unità dell’essere umano è difficile districare il guazzabuglio costituito da intelletto, emozioni, passioni, sentimenti, corporeità. È un composto in equilibrio instabile. Ma è evidente che una modifica di questo equilibrio produce conseguenze sulle tendenze dello spirito pubblico e perciò sulla politica e sulle scelte di voto.

L’eccitazione di paure, desideri, speranze non è certo il frutto di un complotto mediatico. Paura e speranza – metus et spes le cosiddette “passioni dell’attesa” – sono messe in movimento dalle oscillazioni repentine della storia del mondo, in cui l’individuo si trova sballottato. Grandi cambiamenti suscitano grandi paure e grandi speranze. È normale che producano movimenti politici. La diffusione invasivo-pervasiva dei social media, che nessun potere politico può controllare, ha fatto saltare l’illusione di un uso giacobino dall’alto di paure e speranze. Sono correnti profonde e rigagnoli che cercano un alveo. Però la politica le può usare, non necessariamente a fin di bene.

Certo, sono tramontati i pensieri di Hobbes, che sulla paura della morte pensava di costruire lo Stato sovrano; quelli di Robespierre, di Lenin e di Stalin che sul terrore volevano edificare il dominio della Ragione rivoluzionaria. Tuttavia la domanda è legittima: si può incanalare il fiume di lava delle passioni per trasformare l’energia in potenza costruttrice della città umana? Domanda resa più drammatica dallo stato attuale di anarchia del mondo e dalla minaccia terroristica del fondamentalismo islamico. Se «avere paura è un peccato», come affermava con qualche spavalderia Oriana Fallaci, occorre prendere atto che è il più diffuso. Rovesciare il «patire» in agire razionale virtuoso è divenuta la principale sfida pubblica. Una sfida culturale, prima che politica.

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