L’insostenibile leggerezza
del riformismo

Se Gaber era stufo del richiamo alle categorie destra e sinistra per interpretare ogni aspetto del reale, mi consentano i garruli corifei, molti anche nostrani, dell’innovazione istituzionale di esprimere un po’ di garbata insofferenza per l’abuso del termine “riformismo”. Me lo consentano con la cortesia – che chiedo loro – di non vedervi retrostante l’inconfessabile desiderio di difendere rendite di posizione partitica, dacché, a differenza di alcuni di questi loquaci corifei del nuovo corso (che però omettono sempre accuratamente di ricordare questa circostanza), chi scrive non è beneficiario di alcuna rendita politica.

È ben vero che tra gli ostili al nuovo corso dell’innovazione “rottamatrice” ci sono anche pezzi di una vecchia guardia che non sembra giovare alla causa, ma ognuno guardi a casa sua e davvero il fronte dei riformisti e dei “rottamatori” è pieno di protagonisti, passati e presenti, di quella politica partitica di cui denunciano ora le nefandezze, e che sono stati assai lesti a salire in corsa sul treno che pareva loro più sicuro.

Mi pare finanche banale dire che il riformismo è una parola neutra dal punto di vista dei contenuti: si può benissimo essere riformatori o conservatori da posizioni di destra o di sinistra e ciò nondimeno riforma e conservazione restano interpretate in maniera profondamente diversa dalle due prospettive. Mussolini e Berlusconi sono stati decisi innovatori, così come, sul fronte opposto, Mounier e Gramsci… Inoltre, anche l’innovazione, per quanto aspiri alla radicalità, data la vischiosità delle cose umane, “conserva” sempre qualcosa, sicché occorre indicare cosa si intende salvaguardare; e, ancora, quando vive in tempi di cambiamenti tumultuosi, lo stesso conservatore è costretto ad adattare la sua strategia di sopravvivenza o di mantenimento del potere al mutato ambiente. Il Gattopardo ci ha insegnato come spesso il cambiamento occulti e anzi renda possibile la più immobile delle conservazioni.

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