Dall’incidente a una nuova vita
Nel suo arco la freccia della speranza

«La mia vita da quando non posso più camminare è migliorata da molti punti di vista». È davvero spiazzante il sorriso sereno, paziente e saggio di Paolo Cancelli. Ha 48 anni e ha perso l’uso delle gambe nel 2009 dopo un drammatico incidente in moto, ma la sua non è una storia triste, semmai segnata dalla speranza, dalla fiducia, dal coraggio, doti che lo hanno portato fino alle Paralimpiadi di Rio, nella squadra italiana del tiro con l’arco.

Non è possibile, pensiamo noi, che sia più felice adesso, in questa sua «seconda vita» così diversa e complicata, ma lui, seduto sulla sua sedia a rotelle, scrolla le spalle, ci sorride ancora e si capisce che è sincero.

Lo scontro sette anni fa

Quella sera di sette anni fa - era il 24 settembre - Paolo stava tornando a casa, a Stezzano. Un giorno come tanti. I dettagli affiorano ancora nitidi: «Avevo discusso con mia figlia Debora – racconta – che allora aveva 12 anni ed era stata sospesa a scuola. Mi era toccato sgridarla, non mi piace fare la parte del papà cattivo». Era a trecento metri da casa quando all’improvviso un’auto ha svoltato e lui se l’è trovata davanti: «Ho tentato di evitarla, ma non ci sono riuscito». Così è finito a terra, la moto gli è caduta addosso, è calato il buio. Il resto glielo hanno raccontato quando si è risvegliato agli ex Ospedali Riuniti di Bergamo: la frenesia dei soccorsi, l’ambulanza, i medici che dicevano di doverlo operare ma non potevano perché era troppo rischioso, quelle lunghe ore in cui è rimasto sospeso, a un passo dalla morte. Poi, però, le sue condizioni si sono stabilizzate ed è arrivato l’intervento che lo ha salvato.

«Ho riscoperto la famiglia»

«Dei primi quaranta giorni – continua – non mi ricordo quasi niente, sono stato a lungo incosciente e sedato. E poi, dopo il risveglio ricordo di essermi sentito grato perché ero ancora vivo, con la mia famiglia accanto. Ricordo il dolore, ma anche la vicinanza importantissima dei medici e degli infermieri dell’ospedale».

L’incidente ha segnato una svolta radicale: «Prima lavoravo moltissimo – spiega Paolo –. Mi occupavo di impianti per conto di una grande compagnia telefonica. Mi muovevo principalmente nella zona di Lecco, viaggiavo per tutto il giorno: dal mattino alle sei fino a sera alle 19,30. Adesso invece ho molto più tempo per la mia famiglia. L’incidente, sembrerà paradossale, mi ha permesso di accorgermi di che cosa mi stavo perdendo. Trascorro molto più tempo con mia moglie e con mia figlia, mi dedico allo sport, all’Associazione disabili bergamaschi, di cui sono consigliere, e sono così impegnato che il tempo non mi basta mai. Certo, non posso più fare tutto quello che facevo prima».

La riabilitazione a Mozzo

A cambiare la vita di Paolo è stato prima di tutto il periodo trascorso nel centro di Riabilitazione specialistica dell’ospedale che ha sede a Mozzo, diretto dal dottor Guido Molinero: «Grazie al lavoro di medici e fisioterapisti pian piano sono riuscito anche a muovere le gambe. All’inizio sembrava impensabile, invece ci sono riuscito. Non riesco purtroppo a camminare, questo no. Ma sono stato assistito in modo eccellente, mi sono sentito, fin dall’inizio, coccolato da tutti, a partire dal primario fino al personale che riordinava e puliva le camere. Tutti mostrano un grande impegno nel sostenere i pazienti sia dal punto di vista fisico sia psicologico, per aiutarli nel percorso di recupero. Sono rimasto lì per cinque mesi, c’è chi ha bisogno anche di un anno, in questo mi è andata bene. Il merito è anche della mia famiglia che mi è stata molto vicina».

Aiutarsi a vicenda

«Non auguro a nessuno questa esperienza – continua Paolo –, ma questa struttura di riabilitazione è un posto speciale. Anche dopo le dimissioni per un anno ho continuato a frequentare il day hospital e ho cercato di trasmettere positività e forza agli altri pazienti, compresi tanti giovani che purtroppo si sono trovati nella mia condizione senza aver avuto la possibilità di assaporare pienamente la vita. Per loro questo percorso è ancora più difficile. Aiutarsi a vicenda è importante: la sera all’ospedale ci si ritrova tutti, si parla insieme anche di argomenti intimi, della propria vita, del futuro. Anch’io ho condiviso momenti difficili. Il vero banco di prova, però, è il ritorno a casa».

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