Dall’Olimpo al Kilimangiaro con ironia
l’avventura del «gigante buono» Maestrini

Classe 1939, è un’istituzione per gli scalatori, direttore della scuola nazionale di scialpinismo di Nembro. Nel ’58 la prima gita al Curò e da allora non si fermato, salendo vette in tutto il mondo. Esempio di grinta e passione.

«I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi» diceva Goethe quasi tre secoli fa e c’è da credergli se si pensa al «gigante buono» dell’alpinismo seriano. In valle non c’è un appassionato che non lo conosca, che non sia passato dalla sua scuola o non abbia bevuto dalla sua borraccia. All’anagrafe Franco Maestrini, è un’istituzione del settore: creatore e direttore della scuola nazionale di scialpinismo Sandro Fassi di Nembro, membro della commissione nazionale a Milano o semplicemente l’uomo e l’amico, che dei propri meriti poco dice ma che le montagne le conosce e le ha salite tutte. Sci ai piedi o con le mani sulla roccia, da alpinista completo qual è. Nato nel ’39, quell’amore che si è fatto più forte con il tempo lui l’ha scoperto nel ’58, con una gita fra amici all’allora Rifugio Csi al Lago naturale del Curò; di due anni più tardi i primi passi sulla neve, alla baita Neel dell’Alpe Corte. Erano anni in cui in valle, a Bondione d’estate e Valcanale d’inverno, si saliva in bicicletta. Poi sono arrivati gli anni d’oro.

«Si partiva con il mio Galletto – racconta Maestrini – e si andava soprattutto in Val Masino, a rampare. Per dieci anni con me c’era il Baffo (al secolo Armando Pezzotta). Persino ai tre spigoli del Palù ci siamo andati in moto, quando il freddo era davvero freddo. E per due volte gli ho cambiato la coda; caricavamo tutto dietro, su un supporto che avevo realizzato io: due paia di sci in inverno, le corde in estate, e due zaini fra me e lui. Si partiva, si sciava o si arrampicava e poi si stava fuori, magari anche sino al giorno dopo a festeggiare».Perché Franco Maestrini un goliardico lo è davvero, ma di quelli che la festa la vivono raccontando, gioendo delle cose fatte con gli amici. A metà degli anni Sessanta è poi arrivata la quattro ruote: una cinquecento familiare nera. E c’è da immaginarselo lui, 1.93 d’altezza, sistemato nella piccola utilitaria.

«Eravamo in quattro e stavamo tornando dopo aver fatto la Presolana – e la scena gli appare più viva che mai a giudicare dal riso che ne accompagna il racconto –. Lo zaino ciascuno lo aveva sotto il sedere, ma così facendo a me sbucava la testa fuori dalla capotte. Altro che guardare dal finestrino. Arrivati a Castione il vigile mi ha fermato, ma non ha potuto che dirmi che non potevo guidare così. Io nella mia 500 non ci stavo». Lo si starebbe ad ascoltare per ore, come effettivamente in tanti fanno, da una vita, il venerdì sera nella sede Cai di Nembro, centro operativo dell’alpinismo nembrese in epoca moderna, dopo che per anni lo è stato il bar alpino di Leone Pellicioli, quartier generale dove sono nate le piccole-grandi imprese della combriccola che contava fra gli altri anche Curnis, Dotti, Bianchetti e Bergamaelli, meglio noto come lo «stremasì», nonché il capo del gruppo. Maestrini a Nembro ci scende da Clusone, dove vive da quando ha sposato Maria.

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