I miei trent’anni a L’Eco
Tante storie e un grazie

Succede nella vita che il tempo corra più veloce di noi e che siamo arrivati a un traguardo e non ce ne siamo accorti. Capita con i figli quando «improvvisamente» te li trovi adulti. Capita con una vacanza che arriva alla fine e ti viene da esclamare che è volata in un lampo.

E succede con il lavoro. Sono passati trent’anni e quando sono compiuti è come se fosse stato un sogno, come se tutto quel tempo si fosse condensato in un istante. Non te ne sei nemmeno accorto. Trent’anni fa a L’Eco di Bergamo direttore era monsignor Andrea Spada, il mitico don Spada, che aveva preso le redini del giornale nel 1938, in piena «era fascista». Era un giornale in piena espansione, che apriva redazioni anche in provincia, a Lovere, Clusone, Treviglio, Calolziocorte. «Radicamento» era la parola magica di don Spada. In redazione risuonavano i martelletti delle macchine da scrivere, si batteva l’articolo sul foglio e poi lo si passava alla tipografia. Un altro mondo. Oggi il giornalista attraverso il computer costruisce le pagine in video, inserisce gli articoli direttamente nella pagina, così come le fotografie, i titoli, le didascalie, i grafici…

Oggi il giornalista fa molte più cose, deve impegnarsi in ruoli che mai avrebbe immaginato, è un po’ tipografo, un po’ informatico, un po’ grafico… deve passare molto più tempo alla scrivania che a cercare notizie in giro per la città. Un altro mondo. Trent’anni fa non esisteva Internet. Dalle redazioni staccate gli articoli venivano mandati attraverso il fax: a volte le trasmissioni erano disturbate e i fogli arrivavano illeggibili. Per le fotografie ci si affidava al «fuorisacco»: le si inseriva in una busta che veniva data all’autista della corriera, il quale la portava alla stazione di Bergamo dove il fattorino andava a ritirarla.

Il tempo ci sorpassa. Trent’anni fa non avevamo Internet, non esistevano i Dvd, apparivano i primi compact disc musicali. Gli interventi chirurgici con il laser o in via endoscopica erano ancora fantascienza. Non esistevano telefoni cellulari, andavamo ancora con i gettoni nelle cabine telefoniche. I pannelli fotovoltaici per produrre energia elettrica ci sembravano poco più concreti di un sogno. Apparivano i primi personal computer, disco fisso da dieci mega, ad andar bene.

Il cambiamento è stato enorme, ma il bello è che continua ad accelerare e si basa soprattutto sull’infinitamente piccolo, sull’elettronica, l’informatica, sulla fisica quantistica. La complessità cresce al punto da suscitare un senso di disagio, una preoccupazione. Intanto, la professione giornalistica è diventata sempre più importante. Oggi che siamo immersi nel mare di Internet, dei Social, oggi che le notizie ci piovono addosso da tutte le parti, chi verifica quali e quante sono vere? E fino a che punto? È sempre più necessaria la figura del giornalista che raccoglie, esamina, approfondisce e poi comunica l’informazione. Ma è anche vero che in questi anni dei Social – con il loro enorme chiacchiericcio di fondo - si è diffusa in misura maggiore la tendenza alla superficialità, cioè a limitare la notizia a cinque-dieci righe di testo…

Mentre dal punto di vista tecnologico il mondo si inoltra sempre più nella complessità, dal punto di vista della percezione della realtà viene scelta la fruizione veloce, la lettura di corsa, ovvero il semplicismo, con la conseguente crisi dell’editoria, dei giornali che davanti a questa tendenza sembrano inermi.

Da quando sono arrivato a L’Eco di Bergamo sono passati trent’anni, ho raccontato tante storie, tanti fatti, ho incontrato migliaia di persone, ascoltato milioni di parole che in parte ho riportato a voi lettori. Ho visto cambiare il mestiere e la Bergamasca, grandi uomini, grandi aziende passare. Ho seguito l’aeroporto quando contava trecentomila passeggeri all’anno, l’autostrada quando aveva due corsie e la ferrovia per Milano con un solo binario, ho visto diffondersi i Suv, spegnersi le speranze di una «seconda repubblica» che fosse più giusta della prima.

Ho bevuto il tè su al Cavour in Città Alta con Raissa, la moglie di Gorbaciov, ho mangiato nelle mense per i poveri per raccontare meglio la storia di persone che faticano a tirare sera…

Da domani non racconterò più niente sul nostro giornale perché trent’anni sono passati ed è arrivato il tempo della pensione, ma non volevo andarmene senza salutare chi in questi anni ha letto qualcuno dei miei articoli, ha notato la mia firma e non vedendola più si domanderà perché. Certo, con i ricordi e i pensieri si potrebbe riempire un libro, ma, alla fine, la sensazione che avverto più vera è la gratitudine: verso i lettori, verso questa professione, verso questo giornale.

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