«Kings of the Beach», un classico
L’estate, la spiaggia e il volley

Spiagge roventi, il cielo azzurro come il mare e due squadre che giocano beach volley: in questo caos di violenta libertà il videogioco per eccellenza è «Kings of the Beach», un nome per i retrogamer che ha un sapore agrodolce dell’estate che sta finendo.

KINGS OF THE BEACH - Di Michael Abbot e Nana Chambers - Electronic Arts (1988) – MS-DOS

Ho scritto questo piccolo amarcord videoludico durante le vacanze estive, sotto l’ombrellone nei momenti liberi che mi lasciava mio figlio. Vacanze che ormai, a quarant’anni, sanno anche loro di routine e quotidianità. Invidio il mio piccolo che per la prima volta ammira ogni cosa di questi giorni, le onde che lo fanno andare a ruzzoloni, castelli di sabbia immensi e abbandonarsi sulla sdraio con merendine più grandi di lui. In quest’atmosfera surreale il videogioco che mi torna alla mente, e che ogni anno al ritorno a casa mi aspetta fedele da 28 anni, è «Kings of the Beach»: insieme a pochi altri titoli, tra cui l’immortale OutRun di Sega e i «Summer Games» di Epiyx, sono i videogiochi che fanno estate, vero status simbol per noi retrogamer.

Kings of the Beach è un videogioco sportivo, sul beach volley, uscito inizialmente per MS-DOS – ed è la versione che preferisco nonché quella di cui parleremo – e in seguito convertito per Commodore 64 e Nintendo Nes. Oggi la sua grafica potrebbe essere interpretata come demodé, ma dietro la sua scorzetta di limone si nasconde un bel lavoro di pixel art, che trasuda amore e cura per il dettaglio.

Appena arrivati alla schermata delle opzioni, dopo una breve intro, tra l’altro l’unica parte ad avere un accompagnamento musicale, già si entra in modalità «voglia di mare», tanto da sentire il caldo pesante sulla pelle. La disposizione delle opzione stilizzata come cinque campi di gioco, con tanto di persone che passeggiano ed assistono alle partite, è un vero piacere e un tocco di classe: potremmo così accedere alle varie prove per far pratica (schiacciata, palleggio o ricezione), buttarci in una partita singola, ottimo per saggiare le nostre abilità, o infine partire con il torneo.

Il nostro alter ego sarà o Sinjin Smith o Randy Stoklos – che dalla regia mi dicono essere due giocatori molto forti realmente esistiti. Le spiagge che faranno da teatro alle nostre sfide sono San Diego, Chicago, Waikiki, Rio de Janeiro e Sydney, e in ognuna dovremmo disputare tre partite. Ok, Chicago non è il riva al mare, ma avremo comunque un bello scorcio sul lago e una bella spiaggietta artificiale.

Una volta scesi in campo, realizzato in pseudo 3D, tutti e cinque splendidamente ricchi di dettagli, si fa in fretta a entrare in sintonia con il gameplay, le mosse sono le stesse delle tre prove di pratica. A questi si aggiungono i tuffi, che vengono effettuati in automatico quando stiamo arrivando verso la palla e la finta del palleggio che invece si traduce nel lanciare la palla nel campo avversario. Esiste anche una mossa speciale, (inventata realmente da Stoklos), ed è il muro ad una mano, utile se siamo in ritardo con il muro classico.

Perché questo gioco mi piace? Oltre alla sua splendida atmosfera, accentuata al periodo di uscita, una mossa commerciale perfetta, che ha scolpito questo gioco nei miei ricordi, è proprio questa grafica così semplice, ma pesantemente fisica, il sapiente uso dei colori… se chiudi gli occhi ti pare di sentire il suono del mare e il profumo di salsedine. Poi la sua splendida giocabilità… se da un lato i comandi sono alquanto standard e fregandocene bellamente di qualche problema dovuto alla prospettiva, tutto è tarato in maniera perfetta. Le mosse richiedono il giusto tempismo ma non sono rigide, con i tre tasti poi non si può sbagliare quello che si vuol fare. Infine, ma non per ultimo, il tasso di sfida: l’AI (intelligenza artificiale) è dannatamente reale, ogni squadra che sfideremo è ostica ma «umana»: benché non ha un vero punto debole, compie errori e recuperi, niente di diverso da quello che può succedere a qualunque giocatore. Le sfide sono tese, spesso lunghe, con la palla che vola da una parte all’altra del campo con un turbinio di recuperi e passaggi al filo di rasoio. Incredibilmente questa umanità si allarga fino all’arbitro che può commettere errori – e possiamo contestare… una caratteristica ancora oggi molto rara da vedere.

Chiude il quadro perfetto di questo grande classico, la modalità multiplayer: si può giocare sia in modalità team-up, nella stessa squadra verso la scalata del torneo, oppure uno contro l’altro. Ma la modalità collaborazione a essere vincente, il divertimento che ne consegue porta il gioco a un nuovo livello di godimento.

Ed è bello vedere che a distanza di tanti anni, almeno «Kings of the Beach» è sempre dannatamente divertente. O forse, è quella cosa indefinibile dei bei videogiochi, quelli fatti con amore: come quelle onde, che ci parevano enormi e ora non vediamo più (ma sono le nostre gambe ad essere cresciute) o come quelle belle e grosse merendine in riva al mare e che ora sembra sparite (ma sono le nostre mani ad essere cresciute), «King of the Beach» allo stesso modo non è cambiato, ma ha cambiato noi. In quel lasso di tempo che siamo persi nei suoi campi da gioco, ritorniamo bambini, riscopriamo la bellezza di guardare la vita con fantasia e creatività, in modo naturalmente semplice.

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