Legge sul fine vita
e «patti» di morte

La Legge sul cosiddetto fine vita, che ora passa all’esame del Senato, così com’è merita una seria riflessione. Se ogni legge è volta a regolare in meglio i rapporti umani, sorgono spontanee alcune domande. La prima: «A cosa serve?». A stabilire «che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona» (Art. 1. Com. 1). Quanto troviamo già espresso, in forma negativa, nella Costituzione Italiana «nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario» (Art. 32 Com. 2). L’obbligatorietà di avere il consenso informato prima di procedere a un atto sanitario è sancito dalla Convenzione di Oviedo del 1997 che è stata ratificata dall’Italia con la Legge n. 145 del 28 marzo 2001, ma ne aveva già parlato nel 1992 il Comitato Nazionale per la Bioetica.

La Legge specifica che il paziente e i suoi famigliari devono essere adeguatamente informati dal medico «a proposito del possibile evolversi della patologia in atto» (Art. 4 Com. 2) in modo da poter pianificare insieme gli interventi successivi. Questo per consentire al malato di poter effettuare delle scelte anche nella fase finale della propria vita decidendo cosa rifiutare, iniziare e quando interrompere. Questa prassi è nota come pianificazione anticipata di trattamento (advance care planning) ed è già in atto per malati terminali, pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica o malattie degenerative.

Che cosa ha aggiunto la Legge? La possibilità di dare delle «Disposizioni Anticipate di Trattamento» per far rispettare «le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari» in caso di incapacità futura ad esprimere un consenso (Art. 3 Com. 1). Al verificarsi di questa situazione le Dat sono d’aiuto ai medici in modo da conoscere e rispettare le volontà della persona.

Ma in che modo vanno applicate? Il testo presenta al riguardo delle oscillazioni poco chiare. Prima si dice che «il medico è tenuto a rispettare la volontà» quindi dovrebbe eseguire ciò che è stato scritto e «in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civile o penale». Questa precisazione – presente fin dall’inizio nella Legge – fa pensare a una eventuale richiesta di «essere lasciato morire» o «aiutato a morire», che potrebbe far incorrere il medico nell’accusa di abbandono terapeutico o peggio di omicidio del consenziente. Ecco perché è stato aggiunto in extremis che «a fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali» (Art. 1 Com. 7). Quindi non può essere obbligato – nemmeno per legge – a fare ciò che ritiene nocivo per la salute o è causa diretta della morte del paziente.

La stessa ambiguità si riscontra all’Articolo 3 dove si dice che «il medico è tenuto al rispetto delle Dat» a meno che «appaiano manifestamente inappropriate o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero qualora sussistano terapie non prevedibili o non conosciute dal disponente all’atto della sottoscrizione, capaci di assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita». Emendamento contestatissimo perché, come molti hanno già fatto notare, autorizza, seppur non in maniera esplicita, una sorta di obiezione di coscienza che potrebbe «azzoppare» la Legge del suo cavallo di battaglia che è l’autodeterminazione. Infatti se posso legalmente chiedere di morire, ma poi non c’è il medico e la struttura sanitaria che mi aiuta a farlo, a cosa serve questo diritto?

La relatrice della legge, Donata Lenzi, ha chiarito che dovrà esserci un altro medico, non obiettore, disposto a «staccare la spina» poiché «ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge» (Art. 1 Com. 10). La richiesta di consentire a strutture sanitarie private convenzionate di «essere esonerate da applicazioni non rispondenti alla carta dei valori su cui fondano i propri servizi» è stata bocciata dall’aula. Quest’obbligo come ampiamente prevedibile creerà non pochi problemi e non solo a strutture cattoliche.

In conclusione la Legge riafferma alcuni principi – compreso quello di autodeterminazione – che già regolano «la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico» (Art. 1 Com. 2), ma volendo far prevalere il diritto della persona sul dovere del medico di fatto incorre in una serie di incongruenze difficilmente risolvibili. Ogni persona infatti è soggetto a una responsabilità che gli è propria e a un’altra che gli è comune con tutti gli altri uomini. L’autonomia esiste solo dentro un rapporto.

La delicatezza del tema trattato e la varietà delle situazioni umane, nonché la complessità data dall’intreccio di medicina, diritto e etica ci fanno intuire la difficoltà di redigere una legge che possa essere non solo condivisa, ma anche interpretata in modo univoco.

Pertanto se permane la convinzione di intervenire con una legge in questa materia, che attualmente non è priva di regole, c’è da auspicare una riflessione che porti a superare ogni equivoco, e comunque, conduca a una buona qualità normativa avendo cura di evitare varchi, sia pure aperti inconsapevolmente, verso «patti» di morte o abbandono terapeutico.

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