Bolbo, memorie e deliri
di una famiglia surreale

Si chiama Bolbo e non è un libro per tutti i palati. Se il surreale vi dà il bruciore di stomaco e per voi il motto di spirito deve essere telefonato prima e dopo i pasti, allora l’invito è chiaro: desistete.

Se invece il nonsense vi intriga e non vi scandalizzate negli intrecci tra alto e basso, sacro e profano, allora potete proseguire. Bolbo - edito da Fuori/onda - è la seconda prova di Alessandro Gori, blogger di riconosciuta livrea (Lo Sgargabonzi), scritta a quattro mani con il suo sodale internautico Gianluca Cincinelli. Gori infatti ha esordito con «Le avventure di Gunther Brodolini», una storpiatura di Gianburrasca composta da allucinazioni intinte d’umor nero e affreschi splatter. Bolbo ora alza l’asticella, ma lo fa in una dimensione diversa: è la manifestazione libresca di un gioco coraggioso che ricombina stile e significati fuori dalle rotte già mappate. Bolbo è una commedia umana dolce e folle che orbita attorno al grande scomparso dei nostri giorni: il senso del presente.

Bolbo è un libro che intrecciando fotocopie, Liam Gallagher, villeggiature a Follonica, Camogli, orsi marsicani e tanta medicina non convenzionale osa ronzare irriverente attorno ai grandi interrogativi dell’esistenza fingendo che sia tutto uno scherzo. Formalmente si tratta del diario di bordo di un viaggio familiare, un viaggio allucinante che comincia con una fuga collettiva - tutti si nascondono sotto il tavolo per sfuggire i temibili crostini rossi piccanti della nonna Cesira - e si tramuta in un percorso di imprevisti e improbabilità indifferenti alle regole. Le percezioni del lettore sono continuamente messe alla prova da esagerazioni e mescolanze che hanno l’aria di totali prese in giro: bugie e piccoli deliri ben incartati.

Una collezione di stupidaggini quindi? Demenzialità distorta? Tutt’altro. Pensate, tra depistaggi e fuorvianze, a una frase così: «Nella vita si impara qualcosa solo da bambini, per poi affannarci inutilmente il resto dell’esistenza cercando di catturare magari anche solo la scia di quei colori visti solo allora». Oppure all’ansia telegrafata nel racconto dell’insonnia, dove l’attesa è scandita tra bicchieri di Cedrata Tassoni, ricordi di Dylan Dog e Zagor, televendite e rintocchi d’orologio. Altro gioiello bislacco è la Miscela Greganti: il vostro caffè non sarà più lo stesso dopo averla letta. Mentre il capitolo l’Olanda è un notevole esercizio stilistico degno dell’Oulipo (Officina di letteratura potenziale) di Queneau e soci, capace di trasformare una lettera di confessione in concitata cronaca nera.

In effetti Bolbo è un’opera di fantasia che si dipana nell’inganno a carte scoperte, senza il continuo ammiccamento per strappare la risata plaudente. Non ci sono battute, perché qui la comicità sta nella vita stessa, affrontata con le lenti deformanti del linguaggio e un bel mattarello per l’impasto delle consuetudini.

Ovvio che non tutte le ciambelle riescono bucate: alcuni brani, per quanto brillanti, sono troppo slegati dal corpo narrativo. Mi riferisco ai reboot della nota storia della rana e dello scorpione oppure alla burla straniante delle Nozze di Cana. L’amalgama complessivo resta di buona fattura, purché ci si renda conto di essere in balia di un narratore non perfettamente lucido. Anzi, cammin facendo si radica il sospetto che i birboni Gori e Cincinelli ci facciano assistere al racconto di un malato di Alzheimer pronto a spiccare il volo per una regione sconosciuta. Bolbo potrebbe rivelarsi una sorta di testamento irrazionale. Un frappé dei pensieri confusi di un uomo che si spinge oltre la soglia del sensibile, tanto da arrivare ad immaginare forme di apocalisse con qualche riconoscibile accento dantesco.

La tentazione della poesia infatti scorre forte nei due autori, tanto che il libro, come facevano i classici, è introdotto da un proemio in rima, interrotto da interludi riassuntivi e chiosato da un epilogo meditativo. Una conclusione di densa amarezza, che sembra voler compensare la levitas delle pagine precedenti invitando il lettore a mettere a frutto il senso dell’attimo presente.

Gianlorenzo Barollo

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