Una mamma e una figlia
«Fai buon viaggio Rabbit Hayes»

Abbiamo preso in mano «Fai buon viaggio Rabbit Hayes» (Sperling & Kupfer) di Anna McPartlin con un po’ di scetticismo. Il risvolto di copertina dice chiaramente che si tratta di una storia strappalacrime. Protagonista una donna appena quarantenne, Mia Hayes (Rabbit, coniglio, è un tenero soprannome), che fa la giornalista e ha una figlia di dodici anni, Juliet.

Una donna appassionata, entusiasta, brillante, che a un certo punto si trova a fare i conti con una malattia in fase terminale. Ci è venuto in mente subito «Colpa delle stelle» di John Green (Rizzoli): un romanzo «young adult», ma alla fine (complice il film di Josh Boone) lo leggevano tutti, perfino in spiaggia. Intenso e delicato, con il suo successo straordinario ha dato il via a un filone che conta ora decine di titoli (soprattutto americani), la maggior parte dei quali, però, non merita più della polvere degli scaffali.

Aprendo «Rabbit Hayes» perciò, per prima cosa ci siamo detti: ecco, ci risiamo: il solito polpettone. Parlare della vita partendo dalla fine non è facile, l’esito felice – che sfugga alla retorica e al gioco facile della commozione - in un romanzo così, comunque inteso come intrattenimento, letteratura pop, è davvero raro. Qualcosa, però, nella biografia dell’autrice, irlandese, in passato anche attrice e sceneggiatrice, ci ha spinti a continuare. E siamo rimasti piacevolmente coinvolti. Bestseller in Gran Bretagna e Germania, dove ha vinto il Leserpreis, «Fai buon viaggio Rabbit Hayes» racconta con molto rispetto il momento in cui è necessario accompagnare qualcuno che amiamo alla morte: è la cronaca degli ultimi giorni di Rabbit in un hospice. Anna McPartlin sposa il punto di vista delle persone che stanno intorno, con tutto il loro senso di impotenza, la frustrazione, la sofferenza, la fatica di rassegnarsi all’inevitabile. Descrive la complessa dinamica delle relazioni, gli equilibri che cambiano, i nodi familiari che vengono al pettine, gli imbarazzi, i rancori.

Ma si mette anche nei panni di chi vive questa situazione in prima persona: con tutto il suo carico struggente di aspettative deluse, ricordi, rimpianti, desideri, paure a volte incontrollabili. Alla fine, però, non parla soltanto di malattia e di morte, per quanto entrambe siano chiaramente presenti dall’inizio alla fine, piuttosto di amicizia, d’amore, dei dettagli e delle persone che possono davvero fare la differenza nei momenti importanti, della materia impalpabile di cui è composta la vicinanza, di cui a volte riusciamo ad essere così inutilmente avari anche con chi ci è più caro.

Anna McPartlin si concentra sulle cose che rimangono. E ancora sul valore del tempo, per dire a modo suo cosa significa vivere pienamente, fino in fondo: «Oggi sono qui e il mio compito è colmare d’amore, di felicità e di sicurezza il mondo di mia figlia. Perché abbia la mente piena di ricordi e il cuore pieno d’amore».

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